Broken Rage, di Takeshi Kitano

Può sembrare un divertissement, ma è con questo film che il maestro segna una nuova tappa nel suo percorso, abbattendo ogni confine tra il Kitano-comico e il Kitano-regista. VENEZIA81. Fuori Concorso

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L’immagine pubblica di Kitano, specialmente nel suo paese natio, è sempre stata frammentata. Ancor prima di vincere il Leone d’oro con Hana-bi nel 1997, in Occidente e in molti territori extra-nipponici, il comico divenuto filmmaker era ritenuto un autore imprescindibile, l’artista che sarebbe stato destinato a traghettare verso nuovi orizzonti le speranze cinematografiche di un’intera nazione alle prese con le crisi del post-bolla. Eppure nell’arcipelago del Sol Levante nessuno, al tempo, considerava il maestro un regista da prendere in considerazione: per tutti era “Beat” Takeshi, il pilastro (auto)ironico di un celebre duo comico manzai, il cui volto, non appena appariva sul grande e piccolo schermo, portava alle risate milioni di spettatori giapponesi. Su questo dissidio paradossale, mai veramente digerito da Kitano, il cineasta ha ragionato a lungo, tanto da mettere in scena in Takeshis’ (2005) un confronto tra le due anime artistiche del mito televisivo, al fine di distruggere, in uno scontro iconico, ambedue le “personalità” del regista. Un orizzonte, che alla luce di Broken Rage, sembra essere drasticamente superato: quasi come se Kitano avesse raggiunto, con questo film, un grado di consapevolezza (e forse anche di accettazione?) diverso della sua immagine pubblica.

Diviso in due atti (più una brevissima e folgorante coda) il ventesimo lungometraggio del maestro nipponico vota tutti i segmenti che lo compongono ad un processo di autoriflessione – e soprattutto, di smaccata dissacrazione – di ogni codice che il filmmaker è arrivato a sublimare nel corso della sua lunga carriera, sia cinematografica che appunto teatrale/televisiva. Al punto che in ambedue le frazioni di Broken Rage, che reiterano, con registri e toni differenti, la storia di un sicario di nome Nezumi (Takeshi Kitano) costretto a collaborare con la polizia per incastrare un boss della yakuza, a catalizzare l’attenzione è sì lo spirito anarchico degli eventi rappresentati e in particolare la revisione umoristica a cui li sottopone il cineasta nella seconda metà del racconto: ma quel che davvero conta, nel discorso che ci sta qui proponendo il maestro, è l’assoluta franchezza con cui fa esplodere ogni linguaggio del suo cinema, ogni preconcetto o immagine che abbiamo pubblicamente assegnato al cineasta negli ultimi 40 anni, per poi metterla in connessione con la sua anima da comico manzai: l’unica cornice, sembrerebbe ora suggerire l’autore, in cui poter disgregare le barriere tra l’artista filmico (Kitano) e la personalità televisiva (Beat) ed affrancarsi, come mai aveva fatto prima, dal fardello di dover far convivere, sotto una stessa identità, le due frazioni della sua immagine pubblica.

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A differenza di Getting Any? (1994) dove il racconto cinematografico si faceva tributo e testimone delle liturgie umoristiche dei perfomer manzai, qui la comicità diventa il segno di un processo di dissacrazione inesorabile e senza freni, destinato a travolgere, in una spirale infinita di gag sempre uguali a sé stesse ma mai veramente ripetitive, ogni regola narrativa, arrivando addirittura a cancellare ogni spazio che consenta, al pubblico fidelizzato, di ri-trovare le istanze più intrinseche della sua poetica, e godere così della loro mera reiterazione. Se lo spettatore di fatto rimane quasi abbacinato dalle situazioni altisonanti e ridicolmente grottesche che Kitano volontariamente gli sbatte in faccia, il cineasta, al contrario, emerge insieme ai suoi due partner creativi di Broken Rage (gli attori Tadanobu Asano e Nao Omori, già presenti in Kubi) come un puro corpo umoristico, quasi volesse raccontarsi in maniera schietta e demistificante, senza mai veramente entrare in conflitto o in discontinuità con i codici a cui ha legato la sua essenza di artista. E lo fa declinando i luoghi del suo cinema nelle pieghe della comicità manzai, da cui ogni ambiente ne esce smitizzato, e quindi meritevole di essere depauperato di tutte quelle sfumature emotive o simboliche che non abbiano nell’autoironia (soprattutto corporea) il loro centro d’interesse.

Se nella prima sezione del film Kitano passa in rassegna, svuotandoli grottescamente del loro senso originario, molti dei volti e dei luoghi/oggetti del suo cinema (dal primo omicidio a sangue freddo in stile Outrage, alla vasca de L’estate di Kikujiro fino alla katana di Zatoichi) è nella seconda metà del racconto che il maestro porta la narrazione verso traiettorie (parzialmente) inesplorate: perché la revisione degli eventi del segmento iniziale, inabissati ora nella dimensione dell’assurdo, diventa qui il principio di una nuova tappa nella carriera del cineasta, quando non addirittura della coda ideale del percorso artistico del maestro. Giunto adesso, sembrano suggerirci gli intrecci iperbolici di Broken Rage, ad un completo affrancamento dai “fardelli” del passato. Con il Kitano-filmmaker che può finalmente rifluire, senza alcuna soluzione di continuità, nell’immagine di comico televisivo a cui ha sempre delegato il cuore della sua identità artistica.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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