#Cannes68 – Le tout nouveau testament, di Jaco Van Dormael

Alla Quinzaine des realisateurs il ritorno del regista belga con una satira religiosa col fiato corto, artificiosa e vuota

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Ci risiamo. A sei anni da Mr. Nobody – che venne presentato in concorso a Venezia – il belga Jaco Van Dormael torna con il suo stile stravagante ed eccessivo e non possiamo che ripetere anche stavolta le nostre perplessitá su un’idea di cinema di sole marionette orchestrate con (presunta) bravura ed enorme presunzione. Stavolta l’obiettivo è filmare e raccontare un mondo alternativo, dove Cristo viene chiamato JC ed è un pupazzo in miniatura che vuole ribellarsi nei confronti del padre e Dio ha le fattezze di Benoit Poelvoorde. Lui è un uomo in carne ed ossa che passa le giornate davanti al computer, decide con cinismo e humor nero le regole e i destini dell’umanitá. In casa propria beve birra e usa la cinta per rimproverare la figlia. A questa situazione si ribellerá proprio quest’ultima Ea, con un progetto scombiccherato quanto vincente: cambiare le carte in tavola e riscrivere il vangelo con l’aiuto di altri 6 apostoli, che ovviamente corrisponderanno a personaggi quanto mai bizzarri: tra cui ci sono un uomo che frequenta locali a luci rosse, un ragazzino malato, un serial killer, una bellissima ragazza con un braccio di porcellana, una moglie insoddisfatta (Catherine Deneuve) che troverá l’amore fidanzandosi con un gorilla (!).

Ovviamente la satira religiosa di Van Dormael punta tutto sull’eccesso e su una visionarietá pubblicitaria e di superficie che a prima vista puό certamente ingannare i distratti, ma non ha nulla a che vedere con eventuali riferimenti come Terry Gilliam o anche soprattutto il Kevin Smith di Dogma. Se infatti il regista americano riusciva a esplicitare un’anima anarchica e allo stesso tempo intima (nonché sorprendentemente spirituale) ai suoi due angeli e a un progetto che in un modo o nell’altro si rivela ancora oggi un oggetto stranissimo e unico nella commedia americana di ultima generazione, Van Dormael si accontenta di giocare con la forma, evidenziando minuto dopo minuto l’anima estetizzante dell’operazione – saturata non solo dalle immagini e dalle scenografie del set, ma anche da scelte musicali invasive che alternano La mer di Charles Trenet con il The aquarium di Camille Saint Saens e molta altra musica classica. Il regista belga cerca continuamente il colpo a effetto, l’ironia immediata che regala qua e lá momenti innegabilmente divertenti ma che lasciano presto il campo a un congegno macchinoso e fine a se stesso. E’ un cinema che regge il tempo di una (mezza) sequenza insomma, senza alcuna visione del mondo che non sia l’ostentazione di un artificio elegante quanto irrimediabilmente innocuo.

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