Cloud, di Kiyoshi Kurosawa

Inizia come il ritratto di un piccolo furfante del web, per poi improvvisamente trasformarsi in un western/noir cibernetico senza via d’uscita morale. Un grande Kurosawa. VENEZIA81. Fuori Concorso.

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Adesso inizia un gioco di morte” dice soddisfatto, prima della sparatoria risolutiva, uno dei persecutori del protagonista Ryosuke, aggiungendo che da tempo “aspettava questo momento“. C’è un clamoroso cambio di rotta a metà di questo ultimo film scritto e diretto da Kiyoshi Kurosawa. Quello che fino a un certo punto sembrava la lenta e astratta parabola morale di un truffatore del web, un rivenditore che attraverso il nickname “Ratel” (serpente a sonagli) si arricchisce vendendo merce di poco valore a prezzi altissimi, improvvisamente si trasforma in un film di genere, quasi un western/noir cibernetico cupissimo senza vincitori. Un film stilisticamente diviso in due, ma coerente dall’inizio alla fine nel racconto di un mondo condannato all’abisso, all’azzeramento dei valori umani, all’accecamento in nome del lucro e della vendetta. Insomma Cloud sancisce evidentemente il grande ritorno di uno dei maestri del cinema contemporaneo, per il quale il punto di partenza sono stati i violenti “fatti di cronaca che nascono a causa di internet“. E quindi emergono temi cari all’autore di Pulse, come la tecnologia in quanto strumento di morte e portale verso una dimensione spirituale corrotta e, ovviamente, la punizione (Retribution) come dimensione esistenziale allucinata e ineluttabile.

Nel Giappone di oggi abbiamo un giovane che lavora in fabbrica, sta per avere una promozione, ma nonostante tutto preferisce la strada del denaro “facile” attraverso le vendite online. Ryosuke, uomo medio con ambizioni borghesi (la tranquilla convivenza in una casa di campagna con la giovane fidanzata), incarna l’ossessione del profitto nel nuovo mondo digitale che riempie i conti in banca e le carte di credito, mietendo vittime che non vediamo. Almeno fin quando queste non si palesano come vendicatori, cittadini comuni che hanno perso tutto e che, come quasi in un film di Kim Ki-duk, armati di fucili e pistole decidono di rivalersi nei confronti di Ratel/Ryosuke, avendo in testa le logiche punitive medievali applicate al mondo di oggi (la tortura in diretta streaming). C’è però anche un conflitto più sottile che sembra interessare il cineasta. Quasi l’esigenza di plasmare, dietro i personaggi e i loro annientamenti fisici e morali, un trattato sul rapporto indiscernibile tra reale e virtuale. Come se nell’immaginario di Cloud tutto fosse impalpabile e astratto, e fosse davvero impossibile distinguere tra una transazione eseguita sul desktop e gli inseguimenti e le sparatorie. A un certo punto fatti e dialoghi sembrano procedere in modo automatizzato, sonnambolico, come fossero già “decisi” da una logica algoritmica (e presumibilmente malvagia) che si impossessa dei personaggi, rendendoli pedine di un gaming cinefilo e filosofico più ampio e disturbante.

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Anche per questo nella “nuvola” (Cloud) di Kurosawa non c’è spazio per alcuno spiraglio di luce o forma di redenzione. Perché è un mondo in cui si impara a sparare e a uccidere nello spazio di un fotogramma, in cui la donna che si ama può rivelarsi ancora una volta una dark lady e l’angelo salvatore trasformarsi in demone e spingerti ancora di più verso l’apocalisse dell’anima. Come nello straordinario epilogo dal sapore infernale. Un grande Kurosawa.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
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