Europa, di Lars von Trier

Un cinema già malato di gigantismo, di soluzioni formali ora originali ora compiaciute dove l’elemento funereo diventa apparato scenico. Capitolo conclusivo della trilogia sull’Europa.

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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La voce-off di Max von Sydow. Da lì riprende forma la Storia nel capitolo conclusivo della trilogia sull’Europa realizzata da Lars von Trier. La E diventa il comune denominatore già nel titolo, proprio come nei precedenti L’elemento del crimine ed Epidemic. Ed è proprio questa voce, sull’immagine iniziale delle rotaie, che conduce a fondo nel vecchio continente, in una specie di prigione emotiva che potrebbe arrivare dal cinema di Bergman ma che in questo caso è contaminata da frequenti manierismi d’autore. Il segno del regista danese è subito riconoscibile. Il conto da uno a 10 – l’esatto opposto del countdown – sottolinea una corrispondenza fisica tra il corpo e la mente – in un cinema già malato di gigantismo, di soluzioni formali ora originali ora compiaciute, che produce uno stato di persistente straniamento. Rispetto ai primi due capitoli, Europa punta probabilmente a un pubblico più ampio, ma continua a voler mantenere la debita distanza dai personaggi. Sta qui la differenza con Bergman. Se il grande regista svedese c’è una contagiosa irrequetezza e l’ombra persistente della morte, con von Trier l’elemento funereo diventa invece un apparato scenico: la vasca piena di sangue, gli uomini della resistenza impiccati ai lampioni che si vedono dal treno e che hanno al collo dei cartelli con la scritta ‘werwolf’.

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Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’ottobre del 1945, lo statunitense di origine tedesche Leopold Kessler (Jean-Marc Barr) arriva a Francoforte da New York. Suo zio gli ha trovato un impiego come conduttore di vagone letto. Si innamora di Katharina Hartmann (Barbara Sukova), che fa parte della famiglia dei proprietari della compagnia ferroviaria per cui lavora e non si accorge di essere diventato una pedina dei Lupi Mannari, irriducibili nazisti che stanno resistendo con tutte le loro forze all’occupazione alleata statunitense.

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Il cinema di Von Trier (che interpreta un uomo ebreo rasato) lascia precipitare in un incubo kafkiano. L’Europa diventa segno della decadenza e della fine. Nell’alternanza tra bianco e nero e colore, il film recupera delle forme mélo però poi gli toglie l’intensità e il cuore. Le deformazioni narcisisticamente sperimentali (inquadrature dall’alto, sovrimpressione col treno, l’omicidio del sindaco) si alternano a un’eleganza compositiva fiammeggiante (la cattedrale con la neve che cade). Quando Von Trier non opprime il suo film, c’è tutta la forza di un cinema ipnotico con rimandi precisi e consapevole all’Espressionismo tedesco degli anni Venti. Quando in von Trier c’è invece il delirio dell’autore che esibisce il genio sotto gli occhi dello spettatore richiamando sempre l’attenzione su quanto sia bravo, c’è la deriva pericolosa di un cinema che usa i personaggi e gli ambienti proprio come il modellino del treno che si vede nel film. Cosa resta di Europa oggi a circa 33 anni dalla sua realizzazione? Da qui parte tutto il cinema ‘detestabile’ del cineasta danese. La vera fine del mondo la ritroverà con Melancholia.

 

Premio della Giuria al 44° Festival di Cannes

 

Titolo originale: id.
Regia: Lars von Trier
Interpreti: Jean-Marc Barr, Barbara Sukowa, Udo Kier, Ernst-Hugo Jaregard, Erik Mørk, Eddie Costantine, Jørgen Reenberg, Henning Jensen
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 112′
Origine: Danimarca, Francia, Germania, Svezia, Svizzera, 1991

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.3
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