Fearless Movement di Kamasi Washington. Giocare senza paura

I padri sanno giocare come i figli? Kamasi Washington continua la sua opera di contaminazione del jazz, forse con troppa riverenza. Poi, però, arriva André 3000 che ci riporta nel Dream State

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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When the four corners of this cocoon collide


You’ll slip through the cracks hopin’ that you’ll survive
Gather your wit, take a deep look inside
Are you really who they idolize?


To Pimp a Butterfly

 

Josef Liemberg in Wesley’s Theory di Kendrick Lamar (ft. George Clinton & Thundercat)

Mentre Kendrick Lamar dà sfoggio della sua versatilità in u, passando dall’aggressività accusatoria a un trascinato risentimento alcolico della seconda strofa, un sax si muove come la carezza di un amico comprensivo. Dopo il 2015, il rap non è lo stesso. Lo stesso vale per il jazz. Perché a soli 50 giorni di distanza dall’uscita di To Pimp a Butterfly, quel sassofono si prende il centro della scena. Esce The Epic di Kamasi Washington che, insieme alla nuova scena britannico-caraibica, riporta il jazz in alto nelle classifiche degli ascolti, lo riavvicina a un pubblico giovane, ma soprattutto lo contamina. Il jazz non è più musica da ascoltare seduti, immobili e pensosi con un whiskey in una mano e un sigaro nell’altro. Il musicista è statuario al centro della copertina, allineato con due pianeti e in bianco e nero. Sulla copertina di Fearless Movement il jazzista di Los Angeles è ancora al centro. Stavolta, però, non è solo e alle sue spalle non c’è alcun cielo. Accanto a lui, c’è sua figlia.

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Tutta la musica è dance, solo che alcune volte ci dimentichiamo di questa connessione. Questo è un disco dance”. Ad affermarlo è lo stesso artista in una lunga intervista a Crack Magazine. L’aspetto fisico dell’ascolto è sempre stato al centro della sua visione, sia con la sua lunga esperienza da turnista impegnato in infiniti tour fino all’attenzione ai suoi stessi live. La musica è da sempre legata a una dimensione istintiva, corporale, capace di suonarci. Lesenu, l’apertura di Fearless Movement, ci prende per mano tirandoci su dalla sedia, ci fa stiracchiare e in un crescendo ci prepara a quel che verrà. Dicevamo che Kamasi Washington non era più solo in copertina. Sua figlia è stata la prima a testare la musica di suo padre con i suoi balletti, ma non solo.

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Asha the First, seconda traccia di Fearless Movement, nasce proprio dai giochi della piccola con il piano. I padri, però, sanno giocare come i figli? Queste innocenti sperimentazioni vengono ricondotte per mano tra voci (Thundercat, rapper e amico di una vita di Kamasi) e sonorità (cori femminili che torneranno spesso nell’album) più che familiari. È lecito aspettarsi che anche l’orecchio dell’ascoltatore si possa sentire a casa. D’altronde, le sonorità sono quelle che abbiamo imparato a conoscere con Kamasi Washington: capace di mescolare bebop e afrofuturismo, Sun Ra e Wayne Shorter passando per il rap. Non un polpettone ma una navicella spaziale popolata da personalità diverse che collaborano per mantenere la rotta. Anche scorrendo i nomi degli artisti featured ci imbattiamo in nomi tutelari di Washington e della musica black tutta come Terrace Martin e George Clinton. Il primo riesce a imporre una svolta all’album in poco più di un minuto, il secondo ci ricorda che l’eredità di Parliament e Funkadelic scorre ancora tra di noi.

Eppure, si ha quasi l’impressione che in questa sfilata di nomi altisonanti e suoni iconici ci sia una certa malinconia. Il tempo passa e il nuovo si prepara a prender posto nel centro del palcoscenico ben prima che questo gli venga concesso da chi lo calca o lo ha calcato in precedenza. È un misto di rispetto, di ansia dell’oblio e speranza che la memoria resista. Insomma, il magma emotivo in continua ebollizione di un padre che si prepara a vedere la figlia crescere. Eppure, in alcuni tratti (Computer Love su tutti), si avverte un che di prevedibile, come se la ventata d’aria fresca che 9 anni fa ha aerato le stanze del jazz si fosse in parte posata. Poi, con la grazia di una brezza di inizio primavera, arriva André 3000. Dal suo flauto escono fumi che rendono rarefatta l’atmosfera. Il corpo perde il controllo, l’orientamento, non sta in piedi. Ci sediamo di nuovo in quella poltrona dalla quale lo stesso Kamasi Washington ci aveva fatti alzare nel 2015. Stavolta, però, la vista è annebbiata. Chiudiamo gli occhi. Dream State. Ecco che la fine può trasformarsi in prologo.

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