FESTIVAL – A Torino: Cinema e ambiente

Quinta edizione di Cinemambiente Film Festival: un programma ricco e variegato che permette di volgere sguardo e cuore – attraverso gli impervi territori del documentario – ad un altrove, ormai nel mondo globalizzato, non troppo lontano.

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Quinta edizione di Cinemambiente Film Festival in una Torino sempre più attenta all'offerta culturale di qualità. Va necessariamente segnalata l'attenzione che questa città, dedica a queste manifestazioni che, arricchendo il panorama culturale cittadino, si trasformano anche in un utile strumento di promozione turistica.

Il festival, affidato alla guida artistica di Gaetano Capizzi,  durante i sei giorni di proiezioni, più una breve coda, attraversa gli impervi territori del documentario, di quella forma espressiva che fa da terreno di confine con la cronaca, secolarizzato dai canoni del puro reportage, per l'indispensabile utilizzazione di una forma più puramente cinematografica contro l'avversa sintesi comunicativa.


Si ha l'impressione che occuparsi, come fa egregiamente questo festival, di questioni ambientali non possa prescindere da un sentimento di paura per il futuro. Non si tratta di catastrofismo, quanto, piuttosto, di accumulare elementi di giudizio, mettere in fila veri e propri cataclismi e via di questo passo per tirare le somme di un pianeta depredato e consumato e delle povere vite che, in poche, sopportano il peso di questa autentica ingiustizia.

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Se Stephanie Black con il suo pluripremiato Life and debt racconta di una Giamaica depauperata da un imperialismo economico intransigente, il documento disturbante di Hiroshi Shynomya God's children ci introduce in un inferno senza limiti di una squallida discarica ai limiti di Manila. Il racconto di una povera famiglia tra la disperazione e la speranza che la discarica, chiusa per ordine delle autorità, possa riaprire poiché, paradossalmente, è l'unico strumento di sostentamento e di vita. Non è trascurabile l'intento didattico di Baba Mandela di Riccardo Milani, coproduzione Amref e Legambiente. Kevin, il piccolo protagonista, dopo il viaggio attraverso la sua Africa sarà in grado di segnalare a Mandela, capo riconosciuto di un continente che vuole rialzare la testa, le tragedie che ha visto con i propri occhi.

Sembra di assistere davvero ad un macabro rituale venuto fuori da un realistico silenzio degli innocenti guardando The silence of green dell'austriaco Andreas Horvath. Nella pittoresca campagna inglese, e come in un libro della Christie o in un film di Lynch, nessuno scommetterebbe su un crimine sia pure sulle greggi ovine che pascolano su quei prati. Ma l'afta epizootica che colpì quelle zone fa si che vengano eliminati migliaia di capi dei quali, pare, solo una piccola percentuale fosse infetta. Una colossale macchinazione o un eccesso di zelo? Il regista fissa in una lunga ed estenuante sequenza, le immagini rubate dell'esecuzione di decine di pecore mentre le voci fuori campo degli allevatori, ora economicamente in ginocchio, raccontano i retroscena di quei giorni.


Non è meno doloroso vedere pecore o bovini freddati con un secco colpo alla testa piuttosto che il disastro che nel silenzio quasi assoluto si sta consumando sul fiume Narmada in India. A raccontarlo servono due documentari A Narmada Diary di Simantini Dhuru e Anand Patwardhan e Kaise Jeebo Re! Di Anuragh Singh e Jharana Jhaveri. I due documenti, per quanto possano risultare leggermente prolissi e con qualche superfluità di troppo, diventano preziosi non soltanto perché costituiscono un diario delle lotte condotte dalle popolazioni locali contro le centinaia di dighe che stanno devastando interi territori, ma ancora di più perché restano l'ultima testimonianza di intere aree (decine di migliaia di chilometri quadrati) inondate dalle dighe e con esse seppellite per sempre culture e tradizioni degli Adivasi (aborigeni dell'India) che traevano senso dai legami profondi con quei luoghi in cui si tramandavano.

Possono definirsi ultime tracce di forme di vita e se proprio di code esistenziali deve parlarsi non si può fare a meno di citare proprio La última huella (L'ultima traccia) della cilena Paola Castillo. È oggi possibile individuare ultime forme di vita prima che il silenzio ne neghi per sempre anche la memoria? È quello che la Castillo è andata a cercare nella città più a sud del pianeta, nella Terra del Fuoco cilena. Sono davvero le ultime tracce di un popolo che può dirsi ormai estinto: gli Yagani. Ultime testimoni due sorelle Ursula e Christina, ormai ultraottantenni, che accompagnano la troupe sui luoghi della loro infanzia, raccontando dei parenti immortalati nelle fotografie del piccolo museo dedicato a questo popolo e aspettando che il cimitero in riva al mare, che ha accolto le spoglie dei loro antenati, consumi lentamente anche le loro.


Cinemambiente è stata l'occasione per rivedere I forzati della gloria e per recuperare alcune curiosità: Le diavolerie di Tillie, semisconosciuta opera di Gerard Philippe del '56 ambientato nelle Fiandre sottomesse dagli spagnoli nel 17^ secolo, e L'ultimo uomo sulla terra di Umberto Ragona, prima operatore di macchina e poi regista di film horror. L'ultimo uomo sulla terra servì da ispirazione per il più noto e celebre The night of the living dead e poi per The omega Man. Dopo tutto, per fortuna, in questo caso si tratta ancora di finzione cinematografica.

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