FESTIVAL DI ROMA 2013 – Snowpiercer, di Bong Joon-Ho (Fuori concorso)
Con i suoi ripetuti scavalcamenti oltre il limiti del genere, Bong Joon-Ho si muove tra gli angusti spazi dei vagoni dello Snowpiercer raccontando una rivoluzione che si rivela essere unicamente una liberazione mistificata. L’unica salvezza possibile, se ce ne è ancora una, è far deflagrare il mondo conosciuto. E solo allora rimettersi in cammino
Più che soffermarsi sugli innevati paesaggi post-apocalittici, che cominciano a sfilare fuori dai finestrini del treno solo nella seconda metà del film, quello del coreano Bong Joon-Ho è uno sguardo tutto d’interni che, abbandonando questa volta l’ambigua atmosfera chiaroscurale che avvolgeva Memories of Murder e Mother, si muove tra gli angusti spazi dei vagoni dello Snowpiercer, dove vige l’impietosa e violenta legge della segregazione e della disuguaglianza tra classi. E’ questo l’unico e più che antico ordine capace di preservare il treno-mondo dal caos e, dunque, di permettere la sopravvivenza all’umanità. Almeno secondo il Wilford di Ed Harris, l’inventore del treno e il suo unico e semi-deificato despota che, quasi in una variazione post-apocalittica del Christof di The Truman Show, altri non è che il marionettista che tira i fili in uno scenario dove la libertà di movimento è solo una mistificazione. A far saltare le pesanti porte stagne che delimitano i diversi settori dello Snowpiercer è la rivolta capeggiata da Chris Evans che purtroppo, a differenza della sua ottima spalla, un Jamie Bell sfortunatamente ben presto fatto fuori dalla scena, appare visibilmente in “ritardo” lungo tutta la sua pericolosa corsa per raggiungere la locomotiva.
Tra riferimenti volutamenti espliciti che rimandano alla situazione socio-politica delle due Coree e, come ad esempio nel caso della distorta maschera dai grotteschi lineamenti thatcheriani di Tilda Swinton, puntano il dito contro il binomio potere/oppressione, a girare a vuoto in questa prima produzione in lingua inglese per Bong Joon-Ho è lo spirito di denucia che anima fin troppo apertamente Snowpiercer, adattamento della graphic novel francese Le Transperceneige, e che, come nel caso del cinema di Blomkamp, pur se qui Bong Joon-Ho si muove in territori d’ispirazione orwelliana del tutto estranei al regista di District 9 e Elysium, finisce per diventare il punto debole del film. Assai più interessanti sono invece i ripetuti scavalcamenti oltre il limiti del genere del cineasta coreano, come se “ogni vagone rilanciasse un genere, uno stile, un archetipo dell’immaginario cinematografico” e, soprattutto, il falso movimento ascensionale del film, con la sua struttura che richiama i gironi danteschi, dall’inferno dei vagoni di coda fino al presunto paradiso situato alla testa del treno, che, alla fine, si rivela essere un unico spazio orizzontale (lo sa bene John Hurt) dove Bong Joon-Ho guarda alla rivoluzione solamente come ad una falsa liberazione.
L’unica salvezza possibile, se ce ne è ancora una, è far deflagrare il mondo conosciuto, far scivolare il movimento (del cinema?) nel nulla. E solo allora rimettersi in cammino.
Qualcuno ha idea se in Italia arriverà la versione integrale o quella tagliata americana?