GIFFONI 38 – "Someone to Run With" di Oded Davidoff

Someone to Run WithInseguire qualcuno che è in cerca di altro. Il nostro desiderio viaggia sempre lungo percorsi ambigui e solitari, differenti da quelli altrui. E’ in questa interminabile fuga dell’altro, dell’amato a sua volta amante, la materia viva di questo film israeliano. Aldilà della rappresentazione scontata di un mondo adolescenziale sbandato, ma non ancora condannato, cifra di un Paese alla perenne ricerca di sé, di una casa sicura

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Someone to Run WithInseguire qualcuno che è in cerca di altro. Una ricerca al quadrato. Il nostro desiderio sembra sempre viaggiare lungo percorsi ambigui e solitari, differenti da quelli altrui. Strade che non riescono mai a coincidere perfettamente. I fili dei destini e delle storie possono intrecciarsi per brevi istanti, ma vengono inevitabilmente a disperdersi nello spazio e nel tempo, sottoposti all’invincibile entropia dei percorsi individuali.     

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Tratto dall’omonimo racconto di David Grossman (tradotto in Italia con il titolo Qualcuno con cui correre), Someone to Run With è il secondo lungometraggio del regista israeliano Oded Davidoff, dopo l’esordio di Mars Turkey (2001).

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Il diciassettenne Assaf lavora al canile di Gerusalemme e viene incaricato dal responsabile di rintracciare il proprietario di un labrador abbandonato. Una ricerca all’apparenza impossibile, ma è lo stesso cane, Dinka, a mettere Assaf sulle tracce della sua giovane proprietaria, Tamar, misteriosamente scomparsa nel nulla. La ragazza, in realtà, ha scelto di abbandonare tutto e tutti per ritrovare il fratello, promettente chitarrista  vagabondo, invischiato in un losco giro di droga.

Per le strade di Gerusalemme tutti sono alla ricerca di qualcosa o qualcuno e (ri)trovarsi sembra impossibile. Tzahi attende la sua donna, ma lei è già irrimediabilmente lontana, all’inseguimento della sua America. E’ in questa interminabile fuga dell’altro, dell’amato a sua volta amante, la materia viva del film di Davidoff, aldilà delle ambizioni alla rappresentazione di un mondo adolescenziale sbandato, ma non ancora condannato, cifra di un Paese alla perenne ricerca di sé, di una casa sicura. Ambizioni che si traducono in uno sguardo tutto sommato scontato, che paga il suo tributo alla tentazione di raccontare il malessere generazionale in un’estetica rockettara (che fa molto giovani). L’essenziale è altrove. Risiede nella consapevolezza che per colmare la distanza, far di nuovo combaciare i lembi dei destini, occorre rimettere in gioco tutto il proprio assurdo desiderio, consacrargli il sangue e il dolore, come se l’immolazione fosse l’atto necessario che conduce alla liberazione. L’amore è la Pesach, la fuga dall’Egitto, quella vera e totale, aldilà dall’incubo delle illusioni. Ma perché la fuga si compia e l’amore si materializzi, si ha bisogno di un punto di contatto, di un momento, per quanto breve, d’unione e di condivisione. Come quando un popolo, in cerca di una pace possibile, si ritrova a cantare il suo inno. 

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