Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, di Alfonso Cuarón

Il terzo capitolo tratto dai romanzi di J.K. Rowling oltrepassa la rotondità infantile dei primi due e si trasforma in una ballata sincera sull’età perduta. Emozionante e coinvolgente.

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Harry Potter è cresciuto, o meglio, sta cercando di crescere. I problemi con gli zii sono sempre gli stessi, la cattiveria dei “babbani” (umani) è quella solita, ma qualcosa resiste in fondo alla bottiglia di vetro infrangibile sepolta dentro il cuore. Un messaggio cifrato d’amore forse, o soltanto la consapevolezza di essere protetto, amato, guidato dalle cure impossibili ed eterne di fantasmi che segnano il cammino.

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Questa allora la sottile rima interna che rintocca sui corpi di questa strana opera che per qualche motivo oscuro (o forse no) cattura i sensi sin dall’incipit, sfracellandoli in una dimensione che non è più quella di Chris Columbus (qui comunque produttore), né tuttavia interamente della Rowling. È come se infatti Cuarón si impossessasse pian piano dell’economia stagnante di un racconto ormai automatico, per catapultarlo nel luna park desolato e malinconico del ricordo, della tristezza, del pianto. Non è un caso che gli straordinari primi cinque minuti dell’opera segnino un punto di formidabile svolta rispetto ai precedenti: Harry infatti, toccato nell’orgoglio e nell’amore sconfinato per i suoi genitori morti in circostanze misteriose per proteggerlo, usa i suoi poteri contro la zia facendola gonfiare a dismisura, come un pallone, che si libra pesantemente in cielo per non fare più ritorno. È un atto di ribellione, un momento di pura e contagiosa euforia che trova un seguito ancora più convincente nella corsa subito successiva dentro l’autobus NotteTempo e nell’arrivo/ritorno nel castello in cui vengono educati i giovani maghi.

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Cuarón segue chiaramente il corso prestabilito della vicenda, ma non rinuncia a sbriciolare lungo il sentiero segnato dal romanzo di J. K. Rowling alcuni segni di una irrequietezza che conducono Harry in un universo tracciato come linea di confine tra passato e presente. In questo senso, rispetto alla rotondità infantile del primo film di Columbus e alla sottotraccia horror del secondo sempre diretto dal regista americano, qui si avverte come il farsi di un cinema popolato da rigagnoli carsici di terrore, da crepe che inghiottono la materia riducendola a corpo veramente inquietante e misterico, appunto perché intriso di vapori e umori mai riconducibili ad una sola fonte. Cuarón fa dello spazio del romanzo un luogo finalmente aperto ai movimenti della vita (non è un caso che tutti i giovani protagonisti appaiano per la prima volta decisamente cresciuti), un’area non recintata in cui al gioco più esplicito (quello relativo alla convivenza dei protagonisti nel castello e al loro rapporto con gli insegnanti) segue sempre una proiezione specchiata di corpi ambigui ed oscuri. È allora come se in questo frangente il cinema in fondo letterario dei primi due episodi si trasformasse in una ballata sincera sull’età perduta (quella che Harry vede smaterializzarsi sul lago quando si rende conto che la grande luce che lo salva non deriva dall’intervento paterno, ma da un potere che lui stesso), laddove si incrociano vertigini di sogno come la corsa alata sullo straordinario ippogrifo e abissi di perdita incarnati dal sempre grande Gary Oldman (appunto nella parte del prigioniero del titolo che appare come in una reminiscenza di Grandi speranze di Lean, non  caso rifatto da Cuarón in Paradiso perduto) in cui Harry rivede il padre morto. È per questo allora che la sequenza finale (il fermo immagine su Harry che corre verso chissà quale orizzonte) possiede una forza trascinante, la traccia più veritiera di un’emozione cinematografica davvero coinvolgente.

 

Titolo originale: Harry Potter and the prisoner of Azkaban
Regia: Alfonso Cuarón
Interpreti: Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson, Robbie Coltrane, Gary Oldman, Alan Rickman, David Bradley, Julie Christie, Michael Gambon, Maggie Smith, David Thewlis, Emma Thompson, Harry Melling, Richard Griffiths, Pam Ferris, Robert Hardy, Fiona Shaw, Timothy Spall, Julie Walters, Adrian Rawlins
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 143′
Origine: UK, USA, 2004

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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Il voto dei lettori
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