Il cinema come sottrazione – Masterclass di Sergei Loznitsa a Roma

Il regista ha incontrato il pubblico durante l’UnArchive Found Footage Fest, raccontando il proprio approccio al cinema d’archivio, personale tentativo di dare scientificità alla storia

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Un’idea di cinema molto chiara, portata avanti senza scendere a compromessi e con un’attenzione scientifica al dettaglio. È questo ciò che emerge dalle parole di Sergei Loznitsa, che, a poche settimane dalla presentazione alla 77ª edizione del Festival di Cannes del suo nuovo film The Invasion, ha incontrato il pubblico in occasione di una masterclass durante l’UnArchive Found Footage Fest di Roma, che si è aperto proprio con la proiezione di The Kiev Trial. Un incontro, moderato dal critico Alberto Crespi, a cui il cineasta si è preparato con estrema precisione, non aspettando che fosse il pubblico a porgli le domande a cui rispondere, ma esplicando i capisaldi del suo modo di fare film d’archivio, in una sorta di proiezione commentata del suo Blokada.

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Interpellato sulla propria formazione, Loznitsa ha da subito rivendicato la propria identità di cosmopolita sopra qualsiasi appartenenza nazionale: “Cominciando dalla genetica, ho tanti antenati in Svezia e Scozia, alcuni in Grecia e in Serbia, il mio cognome stesso è di origine serba. La genetica probabilmente serve proprio a distruggere i confini tra gli stati. Sono nato in Bielorussia e sono cresciuto in Ucraina. Ho frequentato l’Istituto Politecnico di Kiev, laureandomi come matematico, poi ho lavorato per tre anni all’istituto di cibernetica, il tutto in un periodo in cui era già chiaro che l’Unione Sovietica si sarebbe presto dissolta”.

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In breve ha poi deciso di cambiare settore, optando per il mondo del cinema, che a suo modo di vedere fonde le sue più grandi passioni, la letteratura e la storia. Nel 1991, dopo due tentativi di ammissione non superati, si è quindi iscritto al VGIK di Mosca, studiando con la cineasta Nana Džordžadze. Il suo background da matematico ha tuttavia ricoperto un ruolo importante nel suo approccio alla settima arte. A proposito del suo tentativo di ricostruire la storia attraverso il documentario d’archivio ha infatti affermato: “Sappiamo tutti che né la storia né il cinema sono discipline esatte al 100%, non ancora. Il mio obiettivo è quindi quello di ricercare e sperimentare per trovare un metodo scientifico che sia applicabile a entrambi”, scherzando in seguito “Devo dire che quest’idea è molto difficile da esporre in sede di pitching” .

Loznitsa si è quindi focalizzato proprio sul suo modo di fare documentario di repertorio, spiegando le proprie idee e mostrandone le applicazioni in diversi frammenti di Blokada (2005), che racconta, tramite immagini dell’archivio sovietico, l’assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale: “Lo stesso materiale era già stato usato in tanti altri film, tutti concentrati sul coraggio stoico della resistenza che culminava con la gloriosa vittoria finale. Questa struttura però non corrispondeva a quello che avevo provato quando io avevo visto quelle immagini. Volevo raccontare la sofferenza dei cittadini, la distruzione della città, senza mostrare né militari, né operai che vanno in fabbrica per contribuire allo sforzo bellico. Ho deciso di concentrarmi sulle masse e non sui grandi personaggi”.

Per far ciò, il regista ha spiegato di non aggiungere mai ulteriori elementi a quelli già presenti nei filmati: “Ho escluso la possibilità di usare voice over o musica per commentare ciò che accade sullo schermo. Queste regole me le sono date prima ancora di mettermi a lavorare alla moviola. Per fare un film bisogna procedere per sottrazione e ogni filmmaker dovrebbe in principio stabilire cosa significa per sé sottrarre”.

Il fulcro di questo procedimento sta nel montaggio, che per Sergei Loznitsa è anche la possibilità di ricercare la precisione matematica tanto ambita: “Io ho deciso di procedere per blocchi, creando dei capitoli tra cui inserire uno spazio nero di qualche secondo, che mi dà la possibilità di manipolare il tempo del film, di scegliere il ritmo che voglio imprimergli. Per il resto il montaggio deve procedere come un’onda: sull’asse y metto la durata della sequenza, sull’asse x il suo contenuto e inserendo tutti gli elementi nella mappa ne deve risultare proprio un grafico a onda. Gli elementi principali devono durare molto o molto poco, bisogna sottolinearli o sottrarli. Ciascun blocco si deve chiudere con le inquadrature più dure, alle quali è impossibile o inutile aggiungere qualcosa”.

Loznitsa ha quindi affermato: “Il montaggio cambia il senso delle immagini. Anche il suono stesso, che quando non è già registrato, ricreo in modo fedele a ciò che viene mostrato, può avere un ruolo attivo per provare a legare due inquadrature che altrimenti non potrebbero stare vicine. Dall’archivio è necessario trarre una ricostruzione non strettamente storica, ma narrativa: bisogna trovare un senso nel caos”.

A proposito della possibilità che fosse un regista occidentale a raccontare eventi come l’assedio di Leningrado, ha risposto: “Se pensiamo a L’ombra di Stalin, di Agnieszka Holland, lì ci sono dei bambini che dovrebbero soffrire per la fame, ma chiaramente non sono credibili neanche per un secondo. E poi se leggiamo i diari delle persone che hanno vissuto l’assedio, scopriamo cose bizzarre. In uno stato simile infatti la gente viveva una condizione che non era capace di descrivere a parole. Molti usavano un linguaggio folle, come se un adolescente gioioso raccontasse qualcosa di orrorifico. Perché un’idea di questo tipo possa essere resa al meglio, dovrebbe occuparsene qualcuno che ha vissuto una simile esperienza. Non credo sia un tema altrimenti sollevabile”.

Sergei Loznitsa si è poi soffermato sulla natura degli sguardi in macchina presenti nelle immagini impiegate: “Le persone ritratte non sono negli Stati Uniti, ma in Unione Sovietica. Se venivi filmato, non poteva trattarsi di un’operazione amatoriale. Evidentemente lo Stato aveva dato ordine di effettuare quelle riprese. Quando nel settembre 1941 a Kiev spuntarono tantissimi manifesti che chiedevano alla popolazione ebraica di raccogliersi in un certo luogo, questi non riportavano alcuna firma del sindaco o del governatore, che non volevano assumersene la responsabilità. Tuttavia per le autorità non si poneva il problema della credibilità della comunicazione: in Unione Sovietica se la gente vedeva un manifesto alle pareti, era perché lo Stato lo aveva concesso. Lo stesso vale per le cineprese, i cittadini filmati sapevano che dietro anche in quel caso non poteva che esserci lo Stato”.

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