"Il cinema ritrovato" 21 – Omaggio a Raffaello Matarazzo
Il festival bolognese ripropone il ciclo matarazziano con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. L'iter tortuoso verso l'impossibile congiunzione dell'uomo e della donna (e “cattolicamente” del bambino) separati dal destino supera la conciliante resa figurativa per approdare a una pura grafica, a un gioco di linee spettrale, sottilmente autocontraddittorio
Perché questo “eterno ritorno”? Forse perché, volenti o nolenti, l'immaginario dell'italietta degli anni 50 sarà anche cambiato, ma non fino in fondo. La presenza scopertamente ossessiva (e quindi automaticamente ambigua, ambivalente) dei bambini nei suoi film, veri e propri strumenti strappalacrime in mano al cinema, dice (ahimé) molto sul morboso attaccamento mediatico nazional-popolare al caso Cogne o a quello del piccolo Tommy, su un immaginario inconfondibilmente e sinistramente “puerocentrico” come quello italiano.
Certo, faremmo un grande torto a Matarazzo, autore la cui complessità narrativa e figurativa non è forse stata ancora bene assimilata, se lo riducessimo alla brutale banalità del dato sociologico. Eppure non possiamo nasconderci che proprio il fraintendimento è uno dei meccanismi chiave del melodramma, e di conseguenza uno dei cardini del mondo matarazziano. Quanti personaggi che origliano qualcosa dietro una porta, e poi mentono su quanto hanno sentito, o semplicemente capiscono male o lo tengono nascosto. Ma più in generale è tutta la struttura a germinarsi dalla “sublimazione” di un blocco che non si può superare (richiamo all'impasse costitutiva della sessualità? Sì, anche). Infatti, come vogliono i dettami del melodramma, il conflitto portante non può risolversi “in sé”, ma si esprime tramite la proliferazione folle di una catena di microconflitti che “distorna” il nucleo principale in una serie intricata di “lapsus” narrativi (in primis le allucinanti peripezie dei bambini, specchio distorto dei drammi degli adulti): di suo, Matarazzo esaspera tutto ciò prosciugando personaggi e situazioni fino allo schematismo, evidenziando con la sola forza di uno stacco, di un movimento di macchina, di un accostamento ardito, l'irrealtà obbligata dei continui scambi tra i livelli narrativi che non cessano di proliferare.
In questo modo l'iter tortuoso verso l'”impossibile” congiunzione dell'uomo e della donna (e “cattolicamente” del bambino) separati dal destino (con tutti gli ingredienti classici ripetuti di film in film: orfanelli, eroine perseguitate, carceri, matrigne, brusche regressioni di status socioeconomico, donne sante e puttane, eccetera) supera la conciliante resa figurativa (pur presente i tutti i suoi film con immancabili statue e quadretti con
Matarazzo, indubbiamente, “sente” agire questo paradosso della serialità nel corso stesso del suo dipanarsi. Tant'è che “L'angelo bianco” parla proprio di questo: a riproporsi agli occhi attoniti di Guido è la sosia della sua amata confinata in convento. Quel rimosso oscuro e irriducibile che sempre ritorna, insomma, è l'apparenza (la sosia, Lina, è anche attrice e falsaria), allo stesso modo in cui Nazzari e Sanson ritornano puntualmente sugli schermi insieme. Puntualmente tratteggiata in modo autocontraddittorio nel corso di questo film a suo modo estremo, l'apparenza rivela la sua duplice veste di fulgore dell'evidenza e abisso imperscrutabile. La stessa scissione che percorre l'”eterno femminino” delle eroine matarazziane e che informa il suo cinema modernissimo (vedi il suo esordio “Treno popolare” del 1933 e la sbalorditiva, fluida concisione del suo occhio meccanico), paradossale come solo il melodramma sa essere.