Il fascino macabro dell'Oriente
In principio fu una videocassetta… da "The Ring" a "The Grudge", da "Dark Water" a "Chaos", il fenomeno del rifacimento degli horror nipponici da parte degli americani ha oltrepassato i confini della sperimentazione per porsi come oggetto di costume. L'occidente colonizza l'oriente (o viceversa), a discapito (spesso) della qualità e della genuinità.
L'horror di matrice orientale è il più florido, inventivo, genuino e significativo dell'intero panorama mondiale. Questo già da alcuni anni. Un nugolo di registi di culto, guidati dalla voglia di raccontare gli spasmi della contemporaneità corrotta dei loro paesi, hanno creato e rafforzato un movimento solido, scevro delle banalità e del perbenismo edulcorato di tanto cinema occidentale, spesso sconvolgente per la radicalità di immagini e situazioni raccontate, di certo indispensabile nell'esplorazione di un cinema altro alternativo ai racconti confezionati su misura per le masse.
Takashi Miike, Hideo Nakata, Kiyoshi Kurosawa, Shinya Tsukamoto, Kinji Fukasaku, Takashi Shimizu, pur diversissimi per attitudini ideologiche e modalità di rappresentazione, hanno mostrato l'altra faccia dell'Oriente, e in particolare del Giappone, un paese dilaniato da conflitti interiori, confuso nella ricerca di un'identità post-bellica solo apparentemente solida, soffocato da uno sviluppo tecnologico senza limiti, indeciso se difendere la propria autonomia isolandosi dall'estero o se aprirsi alle suggestioni occidentali, coniato da paure ataviche, quotidiane, terrene e per questo ancor più terrificanti. Questi registi hanno saputo scavare nell'anima di una nazione in cui la paura di totalitarismi dittatoriali è viva e consistente (Battle Royale di Fukasaku), la tecnologia diviene mostro potente e mutevole (Tetsuo di Tsukamoto, Kairo di Kurosawa), la facciata della famiglia nasconde segreti indicibili (Visitor Q di Miike), la mafia e la cronaca nera riempiono le strade (Ichi the Killer e Dead or Alive, entrambi di Miike), e le tradizioni della religione scintoista, le leggende popolari, i racconti orali, le paure ancestrali e le antiche maledizioni tornano alla luce per sorreggere e sostituire una realtà non abbastanza concreta e governabile (Ju-On – The Grudge di Shimizu, The Ring e Dark Water di Nakata).
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Da un paio d'anni a questa parte gli americani, in completa crisi d'identità nei confronti del cinema di genere, perduti tra stantie rivisitazioni di miti ormai raramente efficaci sul grande schermo, idee alquanto banali, sequel infiniti di film ormai annacquati negli anni, ostruzionismo censorio nei confronti dello splatter-movie (ma in questo senso, finalmente, si nota qualche segno di ripresa, si veda L'Alba dei Morti Viventi o il pur indipendentissimo
E così, nei prossimi mesi, vedremo il remake di Chaos di Nakata diretto da Jonathan Glazer con Robert De Niro, The Ring Two, con Naomi Watts e diretto questa volta dallo stesso Nakata, Dark Water con Jennifer Connelly, Shelley Duvall e Walter Salles dietro la macchina da presa, e pare addirittura che Martin Scorsese stia mettendo in piedi per il 2006 un progetto chiamato The Departed, remake della trilogia action Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mak.
Lo splendido e realmente inquietante cinema horror nipponico di inizio millennio è un ibrido impossibile da riprodurre, a giudizio di chi scrive, con le giuste connotazioni concettuali-narrative, in virtù proprio di un'abissale distanza tra mentalità antropologiche difficilmente interscambiabili. C'è solo da augurarsi che esso non scompaia a discapito della commercializzazione americana: di cinema del terrore puro e genuino ne abbiamo ancora bisogno.