Il grande caldo, di Fritz Lang

Da un mediocre romanzo di McGiven, un capolavoro di abilità registica dove il cineasta tedesco disegna il suo universo morale. Una delle più grandi tragedie della storia del cinema. VENEZIA CLASSICI.

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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L’inquadratura di una pistola su una scrivania…una mano afferra la pistola…si sente uno sparo. Un uomo s’accascia sulla scrivania…sullo sfondo s’intravede una donna che scende dalle scale. È la scena iniziale de Il grande caldo. Un capolavoro di abilità registica, in cui il senso emerge più dal non mostrato che dall’evidenza delle immagini. Gli oggetti, le posizioni delle cose e delle persone nello spazio, i suoni assumono una forza “significativa”, che affonda le sue radici nell’esperienza espressionista. Ovviamente non ci sono più gli “eccessi” visivi del passato, scompare quell’apparato iconografico e simbolico tipico del cinema tedesco degli anni ’20 e ’30. Ma rimane il senso di uno stile supremo, in cui ogni immagine assume la dimensione della necessità.

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Cresciuto alla palestra del muto, Lang sa perfettamente come caricare l’immagine di una pregnanza di significato, che la rende indispensabile nel quadro del discorso. E così il dettaglio del caffè che bolle è già il presagio minaccioso di una tragedia incombente. Ma anche la scelta (morale, per dirla alla Rivette) di nascondere agli occhi la violenza (la morte della moglie di Bannion) viene resa ancor più agghiacciante dalla capacità di lavorare di sottrazione, su un’ellissi visiva che è un surplus di senso. E nonostante con gli anni lo stile di Lang diventi più lineare, scarno ed essenziale, il grande tedesco non smette di tratteggiare il suo universo morale.

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Traendo spunto da un mediocre romanzo di William P. McGiven, La città che scotta, Lang, come suo solito, ragiona del dualismo tipico dell’animo umano. Già il mostro di Dusseldorf, viscido assassino di bambine, nel finale diveniva vittima di una società violenta e distorta. Qui troviamo un percorso di segno inverso: la parabola tragica di Dave Bannion (Glenn Ford) diviene una discesa in abissi morali, in cui sfumano i confini tra bene e male, tra giustizia e crimine. Il giustiziere non è un eroe nel senso proprio del termine, ma un animale ferito che risponde alla violenza con altra violenza, innescando una spirale travolgente, da cui, in un modo o nell’altro, nessuno si salva. L’emblema è Debbie (Gloria Grahame), che da oca svampita, decide di riscattare la propria sofferenza con l’assassinio: il suo bellissimo volto sfigurato è a metà tra l’angelo e il demone. E sarà proprio lei a pagare il prezzo più alto.

È vero: Il grande caldo è un film archetipico, David Bannion è il prototipo del poliziotto “extra legem”, che troverà nel cinema (soprattutto anni ’70) infinite declinazioni, Callaghan/Eastwood, il giustiziere della notte/Bronson, giù giù sino ad arrivare al commissario Betti di Maurizio Merli. Ma se qui, con semplice manicheismo, tutto è puntato sull’esaltazione dell’eroe “macho”, nel film di Lang la complessa ambiguità morale dei personaggi assurge a dimensioni abissali. È per questo che, nella sua apparente semplicità, Il grande caldo resta una delle più grandi tragedie della storia del cinema.

 

Titolo originale: The Big Heat
Regia: Fritz Lang
Interpreti: Glenn Ford, Gloria Grahame, Lee Marvin, Jocelyn Brando, Alexander Scourby, Jeanette Nolan, Peter Whitney, Willis Bouchey, Robert Burton, Adam Williams, Howard Wendell, Dorothy Green
Durata: 89′
Origine: USA, 1953

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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