"Il mio viaggio nel tempo". Incontro con Pupi Avati e il cast di "Una sconfinata giovinezza"
In una affollata conferenza stampa il regista bolognese traccia la genesi del suo articolato progetto (è stato pubblicato anche un romanzo dall’omonimo titolo) che si caratterizza come uno dei più autobiografici tra i suoi lavori. La storia di uno “sconfinato” amore di una donna che viene messo alla prova dalla malattia del marito diventa, come sempre in Avati, un viaggio nel tempo e nella memoria privata e pubblica
Il regista Pupi Avati:
Perchè in una storia come questa viene evocata la giovinezza?
È il mio rapporto col tempo. Il rapporto che una persona adulta come me, che si trova nella seconda parte del secondo tempo della propria vita, ha con il passato. Oggi guardo con rammarico, con affettuoso rammarico, alla mia giovinezza perché forse l’ho vissuta con troppa fretta. E allora nel mio cinema si è sempre avvertita quella necessità di “ritornare” sul luogo spensierato dell’essere ragazzo: una sorta di regressione infantile che può essere vagamente paragonata proprio alla forzata regressione a cui ti sottopone una malattia come l’Alzheimer. Mi sono molto incuriosito di questa terribile patologia, l’ho studiata e ho parlato con illustri esperti e alla fine avevo voglia di unire tutte queste cose raccontando una storia d’amore. Era venuto il momento per me di raccontare l’amore in tutte le sue facce: un sentimento che col tempo si trasforma inevitabilmente, diventando addirittura un amore tra una madre e un figlio. La regressione infantile di cui parlavo prima: in effetti questo film avrei voluto chiamarlo “una sconfinata infanzia”.
Lei dichiara orgogliosamente di fare film controcorrente, che sfidano il mercato, in che senso?
Se noi vediamo la classifica degli incassi, anche di questa mattina, ci rendiamo conto di che tipo di film la gente vuole andare a vedere. Commedie soprattutto, film rilassanti che facciano sganasciare dalle risate. Io invece sono convinto che ci sia un potenziale bacino d’utenza che possa essere interessato a temi un po’ più complessi e, se non fosse così, non dovrei solo preoccuparmi io, ma dovrebbero farlo tutti.
Riguardo alla magia, essa risiede appunto in quella sorta di sortilegio che si vive nell’infanzia: un età dove tutto è visto come irripetibile, dove si è molto vicini a quel posto misterioso da cui tutti veniamo e torneremo. I piccoli eventi della mia infanzia sono semplicemente stati stimolati per rendersi palesi, chi conosce il mio cinema sa benissimo che quello è un mondo che ho già raccontato e da cui non voglio assolutamente prendere le distanze. Perché quelle sono le mie radici, che rivendico con orgoglio.
La protagonista Francesca Neri:
Come ha affrontato questo ruolo così complesso, che richiedeva tra l'altro un invecchiamento fisico da rendere evidente?
Questo è uno di quei ruoli dove un’attrice si mette totalmente in gioco. L’invecchiamento è stato un dettaglio importante, anche perché è sempre più facile interpretare un personaggio più vecchio di te di venti o trent’anni. Qui invece si trattava di un leggero invecchiamento, circa dieci anni, e allora bisognava sì partire da dettagli fisici come la parrucca o i vestiti, ma soprattutto dovevo trovare un modo di essere che mi facesse appartenere al mondo della maturità. Ecco, il modo di amare di questa donna, il suo trasformarsi da moglie a madre, è stata la chiave di volta.
Diciamo che anche se ci siamo incontrati tardi, Pupi ed io stiamo facendo un pezzo di strada assieme. Io mi sento protetta sui suoi set e mi sento stimolata come attrice. Penso che in ogni nuovo film che interpreto per lui mi arricchirò come attrice e questo è fondamentale nelle mie scelte.
Il protagonista Fabrizio Bentivoglio:
Quando ho parlato la prima volta con Pupi lui mi ha detto: “ho un pacco dono per un attore”, e mi ha dato la sceneggiatura. Ed in effetti era un bel pacco dono. Ma era anche quella che in gergo viene definita “una patata bollente”, perché era una sfida delicatissima trattare un tema del genere. E questo è stato sempre il nostro obiettivo, trattare il tutto con la massima delicatezza invitandoci l’un l’altro a dare il massimo. Anche il nido protettivo di Cinecittà, è stata una delle poche volte nella mia carriera dove ho girato quasi interamente nei teatri di posa, è servito ad unirci e a prendere l’argomento con il massimo del rispetto possibile.
Ha pensato al Peter Sellers di Oltre il giardino nella costruzione del suo personaggio?
Sinceramente no, anche se Charles il giardiniere è uno dei miei personaggi cinematografici preferiti. Ma io tendo sempre a prendere come modelli delle persone reali, e in questo caso i racconti di Pupi e Antonio Avati che avevo sempre di fronte mi sono bastati per dare spessore e calore al mio personaggio.