I’m Still Here, di Walter Salles

Non è solo un film sulla dittatura dei militari e sa restituire l’effetto dell’improvvisa e inattesa tragedia. Un cinema semplice ma anche limpido e di grande impatto. VENEZIA81. Concorso.

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La dura dittatura nel Brasile degli anni ’70 è lo scenario sul quale il lungo racconto di Salles si snoda. Da Rio Janeiro a San Paolo le vicende della famiglia Paiva con lui Rubens Paiva, deputato laburista e lei Eunice, la moglie e i cinque figli, diventano il soggetto di questa lunga storia, ancora una volta tratta dalla cronaca, con i veri protagonisti che vedremo sui titoli di coda. I’m Still Here diventa diario essenziale non tanto o almeno non soltanto degli anni del regime di polizia con le torture e i desaparecidos, ma è soprattutto un’indagine sugli effetti devastanti che la storia tragica di quegli anni ha avuto sulle famiglie gettate improvvisamente nel vortice della paura e nel terrore della morte.
Senza alcuna indulgenza ad una narrazione da serial tv, il regista brasiliano segue i mutamenti dei singoli e i sentimenti molteplici che riaffermano la solidità degli affetti della famiglia Paiva. Una saga che ci porta dagli anni ’70 al 2014 diventando un lungo e appassionante racconto nel quale sanno emergere la dignità delle proprie idee e la forza interiore con cui sono state sopportate le persecuzioni.
I’m Still Here non è quindi solo un film sulla dittatura dei militari, quanto piuttosto sa restituire l’effetto dell’improvvisa e inattesa tragedia, è uno scrutare le dinamiche familiari, i rapporti tra i fratelli ancora tutti giovani all’epoca dello scatenarsi dei fatti e tra questi e la madre, Eunice, vero catalizzatore di sentimenti e stratega eccezionale nel gestire tatticamente la tragedia con lo scopo di tenere unita la famiglia facendo pesare il meno possibile l’assenza paterna. Gli anni trascorrono e le cose cambiano, ma di Rubens Paiva non vi è più traccia. Solo molti anni dopo un certificato di morte atteso e festeggiato come un certificato di vita, riuscirà a pacificare la memoria dei suoi familiari che non troveranno mai il suo corpo.

Salles realizza un film contenuto, trattenuto e senza urli disperati anche durante le sequenze dell’arresto di Eunice indagata dal regime a causa delle attività politiche del marito. È un cinema semplice quello che serve a Salles che si serve della casa come di un set protettivo, di un benefico rifugio dalle tempeste. È per questo che l’addio alla casa di Rio diventa, nonostante tutto, uno dei momenti più dolorosi del film immortalato dalle immagini tremolanti della pellicola girata dalla giovane Vera. Ma il film resta un lungo racconto intessuto di immagini fotografiche o di quel cinema familiare che rivitalizza i corpi, che ricostruisce i momenti d’assenza della macchina da presa. Le fotografie, di cui sono tappezzati muri, di cui sono pieni gli scatoloni, sono le immagini mancanti che rendono presente il passato, i filmini scomposti, sbreccati, incerti nel loro procedere, ricompongono il quadro dei ricordi in un movimento che in quell’oggi nella famiglia Paiva non poteva più esistere.
Memoria e Storia, presente e duro passato si intrecciano di nuovo in un film che ancora una volta getta una luce sinistra sul quell’America Latina diventata crocevia di mali terribili del mondo e palcoscenico di esercizio per le nuove dittature.
Il film di Salles racconta tutto da solo e non serve alcuna mediazione, il respiro della storia e quello della famiglia Paiva si muovono all’unisono in un film nel cui flusso di immagini ritroviamo le tante verità che il cinema con limpida efficacia può raccontare.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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