Incontro con Enrico Ghezzi, di Simona Petrilli

Manipolare la materia, come giocando con la plastilina stringere i pugni lasciando schizzar via tra le giunture rivoli appiccicosi-blob.


Ridere, piangere, bagnarsi della propria ossessione.

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Parlare, respirare, farsi impressione.


Esprimere col gesto. Essere (nel) cinema (col) cinema e poi sparire nell'augurio di una buona visione di cose (mai) viste.


Enrico Ghezzi si materializza davanti ai nostri occhi perfettamente in sincrono con la nostra idea di lui; vestito di nero come il negativo della sua immagine televisiva per parlarci della critica e del cinema con la grazia di sempre.


Dal 1988 dà vita all'esperimento di 'Fuori Orario' ("una larvale percentuale della mia propria ossessione"), opera di (tras)formazione e di (ri)creazione del cinema imprigionato nel tubo catodico, liberato sott'acqua nel cuore della notte come puro esempio di visibile nel tempo; fotogrammi di  pensiero pensato.


"Non c'è atto di scrittura così alto del farsi attraversare dall'immagine esistente" così sullo schermo come nella vita, puntare l'occhio nell'angolo e poi oltre, senza perdere niente.


Farsi carnefice, soggetto divorante immagini  – (de)tournement –  essere vittima, oggetto divorato dalle immagini; mondi, cose già avvenute sempre in movimento che odorano di cinema e del resto (la vita) e che non finiscono mai come un bel gioco o che finiscono anche, ma non si dimenticano.


Amare il cinema da svegli e scrivere-parlare del cinema senza automatismi come in un sonno ispirato, comunicare emozioni lasciandosi andare.

Perché "bisognerebbe scrivere solo lettere d'amore", come questa.

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