Infinity Festival 2004 – La liberazione dell'invisibile

Terza edizione del festival di Alba diretto da Luciano Barisone che, portando avanti un'idea ben precisa di cinema, la ricerca (e trova) in film molto diversi tra loro mostrando un'apertura forte alle infinite vibrazioni dell'umano e un'identità sempre più precisa.

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Infinity potrebbe essere definito un festival "davidiano", che dalla provincia piemontese delle Langhe e con i propri mezzi sfida il gigante Golia; umanità che fa leva sulla forza spirituale contro il dominio della merce, dell'accumulo e del profitto. Perché ancor prima di ri/cercarlo, di mettersi ogni volta alla prova, Alba lo "Spirito" ce l'ha già; Infinity è un festival con un'anima (e una fede, nel cinema) che di film in film si abbandona al fascio di luce sapendo e sperando che qualcosa può rimanere incagliata, farsi parte di noi. Il punto di partenza, che ha portato fino alla terza edizione è proprio la fiducia nel meccanismo che fa dell'invisibile visione, cinema come confronto perenne con la materia e la vita che nell'apparente riproduzione "fredda" del reale è attraversato da "materie" impalpabili: siano esse anime in senso religioso, "forza" o "semplicemente" i gas verdastri che fuggono attraverso i tagli negli strati carnosi e morti dell'"Autopsis" di Brakhage.

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Ad Alba non dubitano su questa capacità del cinema, ricercano nel suo lato più vicino all'intimità che ci lascia di sprofondare in noi stessi, ma è un salto "protetto" che parte appunto da uno spirito "umano" e a questo ritorna (rinvigorito) dopo ogni visione. Colpisce la sicurezza del cammino di Infinity: "Quello che conta è lo sguardo sulle cose. La "messa in scena", il modo in cui uno filma, riuscendo a cogliere, attraverso i silenzi, gli sguardi e le inquadrature, un qualcosa di impalpabile. Il cinema è straordinario quando ti lascia davanti al mistero. Se in un film è tutto detto, se è consolatorio, allora il mistero è perso.", dichiara il direttore Luciano Barisone, evidenziando che la forza, lo spirito, non è nelle risposte ma nella volontà di interrogarsi.

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Dopo tre anni cominciano ad apparire traiettorie precise, fatte di ritorni e deviazioni, dichiarazioni di riferimenti netti, e in questo senso è indicativa la presenza di Nicolas Philibert, regista di Essere e Avere a cui lo scorso anno è stata dedicata una retrospettiva completa e che in questa edizione è stato chiamato a partecipare al convegno Filmare l'invisibile, organizzato in collaborazione con la CEI e l'ACEC, che ha aperto il festival. Accanto al regista francese hanno partecipato Emanuele Crialese, autore di Respiro, i critici Bruno Fornara e Gianni Canova e i pensatori Enzo Bianchi e Pietro Montani, persone provenienti da ambienti ed esperienze diverse così come i film proposti sotto la stessa sezione. Dagli spazi mastodontici in cui si rincorrono le stagioni della natura e dell'anima di un monaco seguito dall'infanzia alla vecchiaia in Primavera, estate, autunno, inverno, primavera di Kim Ki-duk alle sovrimpressioni intime di fantasmi che si accavallano riducendosi a brandelli di luce nei 10' di Da qui sopra al mare di Mauro Santini, l'invisibile è cercato sul binario esterno/interno come equilibrio che si trova ogni volta nel momento in cui si rompe. La dimensione di ricerca che in questi due film si esprime attraverso l'isolamento e l'apparente immobilità si fa viaggio, tragitto e attraversamento, in Story della rumena Dana Ranga, documentario sulla straordinaria figura di Story Musgrave, matematico, chimico, chirurgo, poeta, pilota e paracadutista ma più di tutto l'uomo che più volte è stato nello spazio (sei di cui l'ultima nel '95 a 61 anni). La regista rumena tenta di cogliere lo spirito che ha spinto Musgrave a spingersi nello spazio che non è molto dissimile da quello che anima il danese Michael Madsen, spintosi nel Giappone contemporaneo, tra tradizioni ataviche e innovazioni, alla ricerca del mitico imperatore cieco della Notte Celestiale in Celestial Night – A film on a visibility.


Se l'idea di vita come viaggio è presa a pine mani dalla cultura cristiana lo stesso vale per il concetto di "r(i)esistenza" che trovano sia l'argentino Hernan Khourian in Norberto Butler (Las sabanas de Norberto), ammalato di poliomielite, che gli italiani Federico Ambiel e Andree Rossi Moroso trovano a Sangatte, centro di accoglienza per clandestini alle porte di Calais, in cui si mostra la forza di volontà e la fiducia nella prossimità (futuro, forse) di un'esistenza più umana (il luogo è lo stesso che Winterbottom filma pornograficamente in Cose di questo mondo).


Insomma Infinity ancora una volta prova non ad indicare una via ma la necessità del cammino; rifiuto del postmodernismo e soprattutto del "postumanesimo", "festival di resistenza dell'umano" – dice ancora Barisone – in cui la macchina è al servizio dell'uomo e scava nel tentativo di liberare l'invisibile.

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