James Benning al Cinéma du Réel: tra Godard, Thoreau e Kaczynski

Benning ha parlato della sua vita e ha raccontato l’esperienza che ha vissuto girando il suo nuovo film. Una filosofia ambientalista che indaga la solitudine, concedendo anche un umorismo contagioso

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James Benning ha incontrato il pubblico del Festival del documentario parigino, Cinéma du Réel, che gli ha dedicato quest’anno una retrospettiva. Nel cuore della capitale francese, al Centre Pompidou, al livello -1, nella sala Cinéma 2, Benning ha portato la sua distesa pacatezza e i suoi racconti, tra un innato senso dell’umorismo e una filosofia ambientalista. Camicia a quadri bianchi e rossi, jeans e stivali in pelle. I suoi lunghi capelli bianchi sono simbolo di un’epoca che l’ha formato e di un’ideologia che ha reso e continua a rendere nei suoi lavori. 

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Dopo Faces, il primo remake nella filmografia del regista (partendo dal lungometraggio di Cassavetes) nel quale ha filmato gli stessi volti mantenendo la stessa durata di inquadrature dell’originale, e Easy Rider (partendo dal celebre e celebratissimo film di Dennis Hopper del ’69), dove ha inquadrato solo i luoghi dove si svolge la narrazione, Benning ha presentato il suo terzo remake: Breathless. All’anteprima, la sera prima dell’incontro, Benning ha ammesso: “Non sono fan del cinema. Lo ero prima che Griffith rovinasse tutto con la narrazione.” 

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Commento provocatorio da cui è partita la conversazione. “Credo che non mi piaccia il cinema, ma un po’ dovrà pure piacermi… Il mio film Faces non mi piace per niente. Tutte queste persone che vivono ancora negli anni ’50; sono degli ubriachi con cui non ho passato dei bei momenti. Mi sono appropriato dei loro volti facendo il film. Una ricostruzione del tempo e una ricostruzione della struttura di Faces di Cassevetes. Ho fatto un film-ritratto: un ritratto di queste brutte persone. Non necessariamente brutte fisicamente, ma vivevano delle brutte vite. E in Easy Rider di Hopper, quei tipi erano disgustosi! Degli spacciatori che se ne vogliono andare in Florida? A chi potrebbero piacere? Ma avevo amato i luoghi del film. E poi Fino all’ultimo respiro di Godard… quanto ho odiato quel film. E quanto è importante per il cinema. La grande storia del cinema con tutti questi stronzi! Quindi nel mio remake non volevo avere a che fare con un personaggio come lui, ho mantenuto solo il formato in quattro terzi e la durata: 87 minuti.”

Nella sala, piena, pervadono risate. 

“Io volevo filmare un albero in particolare e le variazioni di luce sulle foglie. Sarebbe stata la luce a dare la narrazione. Però quando mi sono posizionato, pronto a filmare, c’era un lens flare e ho dovuto aspettare. Finalmente mi sono messo a filmare ed è arrivato un camion dei pompieri. E si sono messi a potare proprio il mio albero! Quindi, non volendo, ho filmato un’azione, una narrazione. Poi quando hanno finito, sono andati poco più avanti, sono usciti dall’inquadratura, e si sono messi a potare un altro albero. A questo punto c’era il suono di quest’altra azione, quest’altra narrazione, che, anche se fuori campo, è comunque nel film. E mi sono messo a pensare al grande camion Shell che è in Fino all’ultimo respiro. Non volevo altri riferimenti a quel film, forse volevo prendermi gioco di Godard… e invece è stato lui a prendersi gioco di me.” Nei dintorni della zona c’è una base aeronautica militare dove vengono praticate le simulazioni. “Mi hanno preso come bersaglio mentre filmavo. A Godard sarebbe piaciuto molto, gli interessavano queste dinamiche tra lo stato e il cittadino.” 

Un’esperienza che ha vissuto con ansia, “Mi chiedo se il pubblico provi questa sensazione guardando il film. Io ero molto nervoso mentre l’ho girato.” 

Benning ha continuato spiegando che non ha mai fatto film pensando al pubblico. Alla prima di 11×14 a Berlino, due terzi degli spettatori lasciarono la sala, Benning rimase devastato. Trent’anni dopo, alla proiezione della versione restaurata dello stesso film, la sala, piena, era composta da 550 spettatori: restarono tutti fino alla fine. “Odio pensare a cosa vorrebbero vedere gli spettatori. Se ci si concentra sul gusto del pubblico, il linguaggio non va avanti, non avanza.”

Nel 2000 compra una casa tra le montagne in Sierra Nevada, dopo aver vissuto nel “quartiere fantasma” di Tribeca della New York anni ’80 e, successivamente, in una piccola e povera cittadina vicino Los Angeles in California. “La casa era perfetta ma non mi piaceva l’estetica, quindi l’ho smontata e poi l’ho ricostruita. Ero molto isolato e mi sono messo a pensare a Thoreau e alla solitudine, e al tempo. Ci ho messo nove mesi a rimodellare la casa e quando ho finito ho cominciato a dipingere perché mi sono chiesto, ‘Come posso colmare questa solitudine?’ E volevo imparare a dipingere, quindi ho cominciato copiando dipinti di artisti che mi piacevano, che al tempo erano considerati outsiders, come Bill Traylor e Henry Darger. E dopo aver dipinto un po’ mi sono detto ‘Ah mi manca costruire…’ e volevo costruire un’altra casa ma a quel punto ero troppo vecchio per una costruzione del genere quindi ho deciso di costruire una replica della capanna di Thoreau e ci ho messo dentro i quadri che avevo dipinto. Quindi a quel punto ho capito che non stavo solo facendo case e imparando a dipingere ma stavo costruendo un significato della solitudine e dell’essere outsider (outsiderness). Ma era tutto troppo ‘carino’ (cute), la casa e i dipinti. Serviva una contrapposizione. Come nel mio film American Dreams, dove c’è la contrapposizione tra l’amore per il baseball e l’antieroe Arthur Bremer. Così ho deciso di costruire la capanna di Unabomber, Ted Kaczynski.”

Costruendo la capanna di Kaczynski, Benning si è sentito come se stesse costruendo un buono e un cattivo al contempo. Studiando più approfonditamente Thoreau e Kaczynski, Benning si è reso conto che avevano delle cose in comune. “Thoreau aveva supportato John Brown, il terrorista che portò alla Guerra Civile americana. Kaczynski aveva scritto tanto sui danni della tecnologia, un discorso simile a quello di Thoreau…”

Dopo aver costruito la seconda capanna, che ha riempito di altri quadri, ha fatto tre film che si associano al progetto “Two Cabins”: Two Cabins, Stemple Pass e Nightfall. 

Aveva affrontato il tema della violenza anche nel suo documentario del 1987, Landscape Suicides. “Si tratta di personaggi isolati per la loro classe sociale. Non penso che l’isolamento porti alla violenza, ma in questo caso, ecco, forse, quando non si riesce a far parte di una comunità, penso che questo possa portare alla violenza.”

Negli ultimi anni, James Benning insegna un corso universitario, Looking and Listening (Guardando e ascoltando). Insieme ai suoi studenti sceglie dei punti dove passare una giornata in completo ascolto di ciò che il panorama ha da offrire. “Non è un esercizio semplice ma imparare a guardare e ascoltare, liberandosi di tutti i pregiudizi, può insegnare davvero tanto.” 

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