La programmazione di Fuori Orario dal 12 al 18 maggio

Proseguono i cicli sul cinema italiano del boom con Il seduttore e Il segno di venere e i maestri d’oriente con Apitchapong Weerasethakul, Ryusuke Hamaguchi, Jia Zhangke e Lee Chang-dong. Da stanotte.

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Domenica 12 maggio dalle 2.30 alle 6.00

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di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

A CAVALLO DEI ’50 – nel boom dipinto di boom (8)

a cura di Paolo Luciani 

Per alcune notti di Fuori Orario presentiamo coppie di film che siano in grado di documentare i cambiamenti in atto nella società italiana tra il 1948 (anno della sconfitta elettorale delle sinistre) e tutti gli anni ’50, caratterizzati dal centrismo democristiano, ma, anche e soprattutto, da una ricostruzione post-bellica accelerata che conduce al boom economico ed al suo rapido sfiorirsi.

Sono gli anni in cui si stratifica la realtà italiana, quella di “un paese mancato”; non basteranno le lotte sindacali e sociali del decennio successivo, insieme al raggiungimento di poche, ma importanti riforme sui diritti di tutti, ad allineare il paese su standard di modernità, ancora oggi irraggiungibili.

Cinematograficamente siamo tra la crisi del neorealismo e l’esordio di grandi personalità (Antonioni, Fellini) insieme al persistere e al mischiarsi di nuove figure professionali (attori, registi, sceneggiatori, quadri tecnici) con quelle ancora provenienti dalle esperienze del cinema del ventennio. Di fatto, dal dopoguerra alla metà dei ’50, prende forma “il pubblico cinematografico italiano”, costruito sul consumo di una produzione nazionale ancora molto diversificata. Resistono tutti i filoni ed i generi: il neorealismo popolare come quello rosa, il film d’avventura e il film opera, il cinema comico attoriale come quello d’autore. Ma abbiamo anche la nascita della commedia all’italiana e l’inizio del peplum, la presenza hollywoodiana a Cinecittà e quello che sarà il cinema dei grandi produttori italiani degli anni ’60, insieme a realtà come “il cinema napoletano”. Su tutto, poi, si stende una cappa censoria che non risparmia nulla. Le produzioni devono combattere contro l’invasione del prodotto hollywoodiano, facendo ancora ricorso a un mercato di esercizio che vede durare anni lo sfruttamento di un film, con stadi diversi di programmazione, in grado di raggiungere gli strati più profondi del paese: quello che farà la televisione, da lì a pochi anni.  Insieme al cinema e alla radio si affermano nuovi media, non solo la TV, ma la pubblicità, la stampa di partito, il fotoromanzo, le riviste di costume illustrate. Dopo il voto alle donne abbiamo una scolarizzazione finalmente di massa. Quella che viene chiamata una mutazione antropologica del paese si manifesta anche con i bisogni che moltiplicano le occasioni del nuovo consumismo, come di una normale, anche se caotica, evoluzione dei costumi. L’auto per tutti, le vacanze di massa, la moda e il nuovo divismo femminile, i concorsi e le manifestazioni, siano esse canore, di bellezza, letterarie, d’arte. Nella consapevolezza comune emergono e si differenziano economicamente e culturalmente composizioni diverse della società, con nuove problematiche anche esistenziali. Ed il nostro cinema è presente e dà conto di questi mutamenti, con alcune costanti che si possono far risalire alle radici profonde della nostra storia: amor di patria -spesso vissuto come a fare ammenda di non encomiabili responsabilità storiche più o meno recenti- una tendenza costante al tragico e al comico, dove far annacquare tendenze inespresse alla rivolta e alla consapevolezza di sé. Ma, soprattutto, la costante narrativa con cui il nostro cinema sembra fare i conti, è condizione familiare, meglio quella della donna, costretta e raccontata in un’emancipazione troppo lenta, sia essa madre, lavoratrice o “donna libera”.

IL SEDUTTORE

(Italia 1954  bianco e nero  durata 94’)

Regia: Franco Rossi

Con: Alberto Sordi, Lea Padovani, Lia Amanda, Jacqueline Pierreaux, Ciccio Barbi, Mino Doro, Pina Bottin

“La storia è quella di un uomo che ama tre donne: ha una moglie, una fidanzata, un’amante. La cosa non gli dà alcun fastidio, salvo quelli pratici di dover avere degli accorgimenti nei confronti delle tre donne, tanto che, stanco, decide di farle incontrare, conoscere fra loro, in modo da studiare la possibilità di una convivenza senza drammi. Mette in atto questo suo disegno, ma, naturalmente, le donne non ci stanno e allora l’uomo, in una di quelle immagini fantasiose di Fabbri, decolla verso l’empireo in una specie di macchina, perché se è così grande il desiderio di vivere tutti assieme, ci sarà pure un luogo dove questo è possibile.”

(Giorgio Prosperi, in occasione della presentazione del film in televisione)

“Fu un momento molto interessante, quello. Per la prima volta affrontammo l’idea di un uomo italiano medio, un uomo di confusione, capace di tenere il piede in più staffe. Si trattava della storia di un giovanotto borghese piuttosto vile, irresponsabile, che ha sposato una donna brava e pratica, proprietaria d’una trattoria. È questa donna che tiene in piedi l’economia familiare: lui, intanto, ha in testa delle idee di evasione, è anche un po’ religioso, ha delle amicizie con i preti, lavora poco. A furia di pensare all’evasione si crea quattro o cinque situazioni che finiscono per complicargli la vita senza risolvergli niente. Pensammo a Sordi per via della sua interpretazione nei

I VITELLONI: io gli ero molto favorevole e poi mi interessava l’idea di fare un film su un modello non accademico, apollineo, ma su un uomo reale con tutte le due debolezze. Noi non ce ne rendevamo conto, ma era importante quello che stavamo per fare. Da questa scelta, infatti, sarebbe nato un nuovo filone cinematografico”.

(Rodolfo Sonego)

IL SEGNO DI VENERE

(Italia 1955 bianco e nero durata 93′)

Regia: Dino Risi

Con: Franca Valeri, Sophia Loren, Alberto Sordi, Tina Pica, Peppino De Filippo, Vittorio De Sica, Raf Vallone, Virgilio Riento

Le vicende sentimentali di due cugine: Cesira è bruttina, alla perenne ricerca dell’uomo ideale in tutti quelli che incontra; Agnese è bellissima, ma non interessata all’argomento, quasi inconsapevole dell’attrazione he esercita. Il destino sarà beffardo…

“Attorno alla tematica centrale della pena d’amore, (l’amore come dolore e come fatica improduttiva: delusione e scacco), ruotano altri temi-satellite: l’integrazione sociale del soggetto attraverso il lavoro e, al tempo stesso, l’incapacità (e la resistenza) ad integrarsi; la pigrizia e l’inerzia di chi non vuole adattarsi alla vita adulta e alle sue leggi. Franca Valeri, Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Vittorio De Sica, ciascuno da una angolazione diversa, testimoniano questa incapacità del soggetto ad aderire alla vita adulta, a conoscere i propri limiti e le proprie facoltà. Sono le figure diverse della incapacità a far coincidere attese soggettive e ruoli sociali. Franca Valeri dando vita ad un personaggio femminile assai sfaccettato, patetico e sospettoso, romantico e deluso, intraprendente ed inabile al tempo stesso. Donna delusa da un lavoro che non la appaga , che sogna il grande amore e si lascia sfruttare dal primo avventuriero di passaggio; un avventuriero casereccio e, tutto sommato, dotato di una  (a suo modo) nobile canaglieria; un avvenente corteggiatore dai capelli grigi (De Sica), il cui fascino è tutto nello stile e nel distacco intenerito con cui parla dei suoi insuccessi… tratteggiando l’intellettuale di maniera appiccicoso ma guardingo, mieloso ma on scatti di dignità e di rispettabilità tradita; un fallito ben urato e dal linguaggio forbito, sempre in attesa dell’occasione per sistemarsi, per accalappiare una preda alla portata dei suoi denti un tantino consumati… Alberto Sordi che incarna invece il tipo del piccolo borghese imbroglione, pasticcione e petulante, psicologicamente disturbato e terrorizzato dalla figura materna…Peppino De Filippo che disegna il carattere demodé del corteggiatore sfortunato, che colleziona insuccesso dopo insuccesso , ma che vuole giocare su due tavoli, perdendo alla fine due poste…”

(Maurizio Grande LA COMMEDIA ALL’ITALIANA)

 

Venerdì 17 maggio dalle 1.30 alle 6.00

POLVERE NEL VENTO. MAESTRI D’ORIENTE  (3)

a cura di Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

MEMORIA                   PRIMA VISIONE TV

(Id., Colombia, Thailandia, Francia, Germania, Svizzera, Regno Unito, USA, 2021, col., 131′, v.o. sottotitoli italiani)

Regia: Apitchapong Weerasethakul

Con: Tilda Swinton, Elkin Diaz, Jeanne Balibar, Juan Pablo Urrego, Daniel Giménez, Cacho

Premio speciale della giuria al Festival di Cannes.

Jessica, la protagonista, è una coltivatrice di orchidee che si trova a Bogotà in visita alla sorella ricoverata in ospedale. Mentre sta dormendo viene svegliata di soprassalto nella notte da un rumore inspiegabile, di cui non sa trovare la provenienza.  La donna non riuscirà più a prendere sonno, e  il suono  si ripresenterà in situazioni casuali anche durante il giorno.  Jessica cerca di trovarne l’origine con l’aiuto di Hernàn, tecnico del suono presso uno studio di registrazione. Fa anche amicizia con Agnes, un’archeologa che sta studiando i resti umani, risalenti a 6000 anni prima, scoperti in un tunnel in costruzione. Mentre viaggia per raggiungere Agnes sul sito degli scavi fa la conoscenza del pescatore Hernan, che vive nella foresta, e col quale passa una giornata in riva al fiume scambiandosi i ricordi. Quando la giornata volge al termine Jessica prova un senso di chiarezza, forse scopre di essere un punto di congiunzione tra passato, presente e futuro.

«All’inizio pensavo che Memoria sarebbe stato molto diverso dai miei film precedenti, ma visionando le rushes mi sono reso conto di quanto fosse simile in termini di ritmo, movimenti, luce. Sento che Memoria va oltre la sua collocazione in un paese particolare, è nello stesso tempo la Colombia, la Thailandia, ma forse anche altrove… Il fatto di girare in 35 mm., con inquadrature della durata tra i cinque e i dieci minuti, aggiungeva una certa concentrazione. Era come un rituale. (…) Il cinema di Jacques Tourneur è stato particolarmente importante per me, In Memoria Tilda Swinton si chiama Jessica Holland, come la donna zombi in Ho camminato con uno zombi. Volevo che anche il mio personaggio diventasse una sorta di marionetta. Anche in Tourneur la donna è come ipnotizzata da un suono, quello dei tamburi vudù, una musica nera, mentre lei è bianca. E questo fa anche apparire i resti della colonizzazione, attraverso una cultura indigena. Credo che Jessica, come la Jessica di Tourneur, non esista veramente: ha una dimensione surreale, che può esistere solo attraverso il cinema. È come un micro, raccoglie suoni, colori. È come un’onda che cerca di sincronizzarsi con un’altra onda. È il cinema. Memoria è un film molto lineare. Lo vedevo come un haiku, qualcosa come: Bang!…walk, walk, walk. (…) Sono stato cresciuto nell’animismo e il buddismo, con l’idea che tutte le cose siano connesse. Al di là del fatto di credere o non credere questo mi ha segnato in modo indelebile. Ma mi sono anche immerso nell’universo scientifico, perché i miei genitori erano medici. Sono cresciuto in mezzo a libri di medicina, e credo che il cinema abbia molto a che vedere anche con questo, in particolare in Ho camminato con uno zombi: l’attenzione al corpo, alla vita organica, alle cure» (Apitchatpong Weerasethakul, dall’intervista dei “Cahiers du Cinéma” n. 781, novembre 2021)

IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA 

(WHEEL OF FORTUNE AND FANTASY)                                

(Guzen to sozo, Giappone, 2021, col., dur., 117′, v. o. sott., it.)

Regia: Ryusuke Hamaguchi

Con: Kotone Furukawa, Kiyohiko Shibukawa, Katsuki Mori, Aoba Kawai, Ayumu Nakajima, Hyunri, Shouma Ka

Mentre Drive My Car è tratto dai racconti di Haruki Murakami, Wheel of Fortune and Fantasy è basato su una serie di appunti originali scritti da Hamaguchi per dei possibili racconti che invece, sviluppati, sono poi diventati la sceneggiatura del film. La traduzione letterale del titolo originale giapponese è “Caso e immaginazione”.

Il film è suddiviso in tre episodi, che ruotano ciascuno intorno a un personaggio femminile. Come tre movimenti di un brano musicale, raccontano le storie di un triangolo amoroso inaspettato, di una trappola di seduzione fallita e di un incontro che nasce da un malinteso. Il film costruisce poco a poco un organismo unico che riflette sulle nozioni di tempo e spazio e che culmina nel contesto fantascientifico dell’ultimo episodio. Coincidenza, destino, scelta, rimpianto: sono loro i veri protagonisti del film.

“ Trovo straordinaria quella scintilla irripetibile che si crea ad ogni ripresa. Trovo che gli attori abbiano una parte dentro di loro che si stanca sempre di più ripetendo una sequenza, mentre un’altra parte, al contrario, brilla. Penso che la ragione per cui non perdono quella scintilla fino alla fine potrebbe essere perché hanno interiorizzato la lettura. Poi, con il taglio finale, cerco di mettere insieme quelle scintille.” (cit., tratta da, The power of the word, Interview with Ryusuke Hamaguch, Film Parlato, n. 16)

 

Sabato 18 maggio dalle 2.10 alle 7.00

POLVERE NEL VENTO. MAESTRI D’ORIENTE  (4)

a cura di Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

AL DI LÀ DELLE MONTAGNE                     

(Shan He Gu Ren, Cina, 2015, col., dur., 121’,  v.o. sott. italiano)

Regia: Jia Zhangke

Con.: Zhao Tao, Zhang Yi, Liang Jingdong, Dong Zijang, Sylvia Chang, Rong Zishang

Presentato in Concorso alla 68a edizione del Festival di Cannes.

Il film prosegue il viaggio politico con cui Jia Zhangke racconta le grandi trasformazioni sociali della Cina contemporanea. Parlando di Al di là delle montagne il regista ha dichiarato: “Volevo raccontare la storia collettiva di un’intera generazione”.

Il film è diviso in tre parti. La prima parte è ambientata nella città di Fenyang (nella provincia settentrionale dello Shanxi) nel 1999. La 25enne negoziante Tao (Zhao Tao) è combattuta tra due pretendenti, gli amici di infanzia Liangzi (Liang Jingdong) e Jinsheng (Zhang Yi). Jinsheng è un benestante proprietario di una stazione di servizio che potrebbe migliorare drasticamente le sue condizioni di vita materiali. Lei si sente più vicina a Liangzi, un operaio nella miniera di carbone locale. Quando si confronta con entrambi gli uomini, Tao decide di sposare Jinsheng nella speranza di lasciare Fenyang. Con lui avrà un figlio di nome Dollar.

Nel 2014 Tao, ormai divorziata da Jinsheng, vive ancora a Fenyang dove gestisce la prosperosa stazione di servizio. Jinsheng si è risposato e vive a Shanghai, ed è diventato ricco grazie agli investimenti. Liangzi lavora come minatore vicino a Handan, nella vicina provincia di Hebei, e si è ammalato. Daole (pronunciato Dollar in inglese), il figlio di 7 anni di Tao e Jinsheng, va a trovare la madre per il funerale di suo padre. Tao è turbata dalla distanza di Daole, che lei riconosce essere dovuta alle loro differenze culturali. Tao, sapendo che sono destinati a stare lontani, decide di prendere il treno lento con Daole, invece di rimandarlo in aereo a Shanghai. Come regalo d’addio, Tao dona a Daole un mazzo di chiavi di casa sua, in modo che possa tornare a casa di sua madre quando vuole.

Nel 2025 Daole (ora chiamato Dollar) frequenta il college in Australia. Litiga costantemente con suo padre per il suo desiderio di abbandonare il college e avere la libertà che non gli è mai stata concessa nella sua infanzia. Incontra Mia, la sua insegnante di lingua cinese, una donna più grande con la quale inizia una relazione. Dollar condivide con Mia il fatto che porta ancora con sé le chiavi che sua madre gli ha dato quando era un ragazzino e teme di non poter più rivedere la madre. Mia lo convince a tornare con lei in Cina per poter vedere Tao.

BURNING

(Beoning, Corea del Sud, 2018, col., dur., 143′, v. o. sottotitoli italiani )

Regia: Lee Chang-dong

Con: Yoo Ah-in, Steven Yeun, Jeon Jong-seo

Tratto dai due racconti dallo stesso titolo, Barn Burning, di Haruki Murakami (dalla raccolta The Elephant Vanishes) e William Faulkner, Burning è il primo film di Lee Chang-dong dopo un’assenza di otto anni. Lee stesso lo definisce un film sul “mistero della giovinezza oggi”.

Giovane aspirante romanziere, Lee Jong-su fa lavori saltuari a Paju. Un giorno si imbatte in Shin Hae-mi, una vicina d’infanzia e compagna di classe. Jong-su inizialmente non si ricorda di lei, ma Shin Hae-mi gli dice che si è sottoposta a un intervento di chirurgia plastica. Jong-su allora si ricorda e quando lei gli propone di prendersi cura del suo gatto mentre sarà assente per un viaggio in Africa, Lee Jong-su accetta. Prima della partenza, Jong-su va a trovare Hae-mi nel suo appartamento, dove riceve istruzioni su come nutrire il gatto e i due ragazzi fanno l’amore. Jong-su nutre diligentemente il gatto, anche se non lo vede mai. Nelle ore in cui è solo nell’appartamento, Jong-su inizia anche a masturbarsi abitualmente. Un giorno Hae-mi chiama, dicendo che è rimasta bloccata all’aeroporto di Nairobi per tre giorni dopo un bombardamento nelle vicinanze. Quando Jong-su viene a prenderla, lei arriva con Ben, che ha incontrato e con cui ha legato durante la crisi. I tre vanno a cena fuori e Hae-mi piange e confessa di voler scomparire. Durante una serata alla fattoria di Jong-su, Ben confessa uno strano hobby: ogni due mesi, brucia una serra abbandonata. Jong-su dice a Ben che ama Hae-mi, la quale però Hae-mi sale tranquillamente nell’auto di Ben. Nei giorni seguenti, Jong-su riceve una chiamata da Hae-mi, che si interrompe dopo pochi secondi di rumori ambigui. Jong-su si preoccupa e per giorni non riesce più a contattarla. Jong-su comincia a indagare ed entra nell’appartamento di Hae-mi in modo da poter dar da mangiare al suo gatto ma dentro, oltre alla valigia rosa di Hae-mi, non ci sono segni di vita. Jong-su sospetta di Ben ma lui pure dice di non aver più avuto notizie di Hae-mi. I sospetti di Jong-su però aumentano dopo aver trovato degli oggetti di Hae-mi e un gatto in casa di Ben. Jong-su chiede di incontrare Ben in campagna, sostenendo di essere con Hae-mi. Jong-su pugnala Ben più volte, uccidendolo, poi cosparge di benzina l’auto e il corpo di Ben e dà fuoco a tutto, gettando anche i suoi vestiti intrisi di sangue. Inciampa nudo verso il suo camion e se ne va.

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    2 commenti

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