La programmazione di Fuori Orario dal 25 al 31 agosto

Tutti i colori del noir e speciale Venezia con Gitai, D’Anolfi-Parenti, Suleiman, Saleh e Akerman. Da stanotte.

--------------------------------------------------------------
BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

--------------------------------------------------------------

Domenica 25 agosto dalle 1.45 alle 6.00

--------------------------------------------------------------
KIM KI-DUK: LA MONOGRAFIA DEFINITIVA!

--------------------------------------------------------------

Fuori Orario cose (mai) viste

----------------------------
UNICINEMA QUADRIENNALE:SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

VICOLI BUI, INCUBI NERI tutti i colori del noir (6)

a cura di Paolo Luciani 

“… la rivista LIFE, allora punto di riferimento della media borghesia, etichettò la tendenza come la profonda predilezione post-bellica di Hollywood per il dramma morboso. Stilisticamente questi film costituiscono uno dei periodi più ricchi del cinema americano. Dapprima film noir designò solo gli adattamenti dalla serie noir, una collana di tascabili nota sotto questo nome per la caratteristica copertina nera.   Come questi, il film noir  aveva origine nella letteratura pre-bellica, ma delineava le realtà del crimine post-bellico.  Gli storici ed i sociologi non troveranno quasi nessun rapporto tra la mala descritta nei film noir  – non esattamente una classe, un gruppo o un ambiente – e gli avvenimenti che segnarono il crimine  americano dall’esecuzione di legale di Lepke Buchalter nel 1944 all’assassinio da gang di Bugs Malone.

Nessun criminale realmente esistito fu rappresentato in film americani da Lo sterminatore del 1945 a Baby Face Nelson (Faccia d’angelo, 1957), all’incirca il periodo di splendore del film noir: “…non sarà mai approvato nessun film che tratti della vita di un noto criminale di tempi recenti che usi il nome, il soprannome o altro di tale noto criminale nel film, né sarà approvato un film basato sulla vita di questo noto criminale a meno che il personaggio mostrato nel film non sia punito per i  crimini, parimenti mostrati nel film, da lui compiuti”

La logica alternativa al gangster – film maschilista e violento era il thriller psicologico, di solito centrato su una protagonista depravata. Il secondo tipo di film diventò una tendenza che esplose nel periodo post-bellico e fornì titoli di film noir.

Qualche osservatore straniero, come Ado Kyrou, vide in questa nuova esplosione di misoginia un’espressione del risentimento verso le donne, una reazione ai quattro anni di idealizzazione della guerra, durante i quali alle donne erano consentiti due soli ruoli, la moglie in attesa o la ragazza nubile che faceva la sua parte nel grande sforzo bellico.

Ma non c’era di più. La guerra e le sue conseguenze psicologiche contribuirono a rendere popolari la teoria ed il linguaggio freudiano. Un interesse crescente per la psicoanalisi fornì ai registi un nuovo approccio su tutto quello che il Codice reputava discutibile. Per trattare di argomenti proibiti la migliore cosa era far deviare il comportamento sessuale verso un comportamento criminale, che era più facile da giustificare agli occhi del Codice.

Secondo questa logica, un criminale che andava verso il suo destino poteva indulgere ad atti sessualmente illeciti, dato che comunque era predestinato e la punizione per un atto criminale implicava la punizione per un atto sessuale inaccettabile.

Prendiamo ad esempio un film noir minore, ma tipico, Perfido inganno (1947), in cui il motivo centrale era costituito dal desiderio frustrato della protagonista per un assassino e i personaggi secondari costituivano un campionario di depravazione.

… uno Studio di produzione più modesto come quello della RKO-Radio era disponibile alla sperimentazione delle aree scure per nascondere i limiti di un set modesto e per mascherarne la ripetitività. Il film noir venne più naturale alla RKO e le prime impressioni nere erano avvincenti nei primi film minori come Lo sconosciuto del terzo pianoIl bacio della pantera, La settima vittima, cui il tema unificante sembra essere il terrore e l’ossessione. (da Carlos Clarens, GIUNGLE AMERICANE, 1980)

UNA ROSA BIANCA PER GIULIA

(Where Danger Lives, Usa, 1950, b/n, dur., 77′)

Regia: John Farrow

Con: Robert Mitchum, Faith Domergue, Claude Rains, Maureen O’ Sullivan

Un medico si innamora di una aspirante suicida che ha salvato con una complicata operazione, e non esita a lasiare lasciare la sua fidanzata. La donna però manifesta subito dei comportamenti inquietanti, finché si scopre che in realtà è sposata… In seguito ad una discussione violenta con il marito, il medico è convinto di averlo ucciso dopo una colluttazione…Si lascia così convincere dalla donna  a fuggire in Messico, dove però lo attende una sconvolgente sorpresa…

VALERIA L’AMANTE CHE UCCIDE

(The Velvet Touch, Usa, 1948, b/n, dur., 98’)

Regia: Jack Gage

Con:  Rosalind Russell, Leo Genn, Claire Trevor, Sydney Greenstreet

Una famosa attrice teatrale di Broadway è ossessionata dal proprio agente, interessato più a sfruttarla per i propri interessi che per favorire la sua carriera. Durante una furibonda lite, lei lo uccide involontariamente, colpendolo con una pesante statuetta. Viene incolpata del delitto una giocane attrice sua amica, per di più innamorata dell’agente ucciso. Il dramma precipita…

Noir – melodramma, dominato dalla presenza di Rosalind Russell, primadonna nella finzione e nella vita, all’epoca moglie del produttore Frederick Brisson; Sydney Greenstreet, uno dei più noti cattivi di Hollywood, interpreta qui l’insolito ruolo del detective; nello stesso anno George Cukor dirige Doppia vita, altro noir ambientato nel mondo del teatro.

MORIRAI A MEZZANOTTE

(Desperate, Usa, 1947, b/n, dur., 71′)

Regia: Anthony Mann

Con: Steve Brodie, Audrey Long, Raymond Burr, Douglas Fowley

Un onesto camionista si trova, suo malgrado, testimone di una rapina che si conclude con l’uccisione di un poliziotto. Nel processo, non esita a testimoniare e a riconoscere uno dei banditi, che viene condannato a morte. Il fratello del malvivente, capo della banda, giura di ucciderlo la stessa notte in  cui quello  sarà giustiziato. Inizia una drammatica fuga con inseguimento, fino al confronto finale…

 

Venerdì 30 agosto dalle 00.15 alle 6.00

RAGGIUNSERO IL TRAGHETTO. FUORI ORARIO VENEZIA 2024 (1)

a cura di Fulvio Baglivi, Simona Fina, Roberto Turigliatto

La prima di due notti di Fuori Orario presentate in occasione della prima mondiale a Venezia del nuovo film di Amos Gitay, WHY WAR 

 

GLI INGANNATI

(Al-Makhdu’un / The Dupes, Siria, b/n, 110’, v.o. araba con sottotitoli italiani

Regia: Tewfik Saleh

Con: Mohamed Kheir-Halouani (Abou Keïss), Abderrahman Alrahy (Abou Kheizarane), Bassan Lofti Abou-Ghazala (Assaad), Saleh Kholoki (Marouane), Thanaa Debsi (Om Keïss).

Gli ingannati è uno dei capolavori più alti e potenti del cinema arabo, straziante storia di emigrazione palestinese, girato in Siria da un importante cineasta egiziano.  Il film è stato recentemente restaurato da The Film Foundation’s World Cinema Project di Martin Scorsese e dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con The National Film Organization e la famiglia di Tewfik Saleh. La versione restaurata è stata presentata in prima mondiale al Festival Il Cinema Ritrovato. Prima del restauro il film era già stato mostrato in Italia da Fuori Orario nel 1999 e dal Festival I Mille Occhi nel 2017.

A poco più di dieci anni dalla nakba, l’ esodo palestinese forzato dai territori diventati israeliani nel ’48, tre rifugiati in Iraq, di differenti generazioni, sognano di fuggire  dai campi profughi installati a Bassora, sulle rive dello Shatt el Arab,  in territorio iracheno. dove non trovano lavoro, e di attraversare il deserto, verso la ricchezza e la prosperità del Kuwait.   «Non hanno la stessa età, non sono della stessa famiglia e dello stesso villaggio, ma Abu, Assad e Marwan condividono il medesimo sogno: una vita migliore in Kuwait, la loro “terra promessa”.   Il passeur Abul Khaizuran convince i tre compagni di sventura a tentare la traversata delle frontiere nascosti all’interno del suo camion-cisterna, che nel deserto si trasforma in una fornace.  Tewfik Saleh realizza un’opera altamente politica, che denuncia anche certi governi arabi, e mostra il gioco al massacro nel quale i potenti guardano i loro popoli morire di fame e di sete in un deserto soffocante. Come una metafora della sorte del popolo palestinese costretto all’esilio dal 1948» (Laura Lépine, catalogo del Festival Cinéma du Sud, Lione, 2024)

«Ho lavorato all’adattamento di Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani (militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina assassinato il 9 luglio 1972 a Beirut dal Mossad) dal 1964 al 1971. Le mie intenzioni e la mia interpretazione del romanzo e dei suoi personaggi sono cambiate alla luce dei tragici eventi accaduti in questa regione nel giugno 1967 e nel settembre 1970. Nell’ultima versione del progetto ho voluto mettere l’accento sull’idea di fuga che in questo momento caratterizza il Medio Oriente. Tre personaggi di tre generazioni diverse, che rappresentano tre fasi dello stesso problema collettivo, decidono di fuggire dalla loro situazione alla ricerca di quella che ciascuno considera o spera sia la propria salvezza individuale. Ma la fine è molto diversa dalle loro aspettative: non esiste salvezza individuale da una tragedia collettiva. Ed è questa la lezione che la storia ci insegna ogni giorno» (dichiarazione di Tewfik Saleh, raccolta da Tahar Cherfiaa, in.Dossiers du cinéma: Cinéastes,  Casterman, Parigi 1971, riprodotta nel catalogo del Festival Il Cinema Ritrovato, 2023) 

IL PARADISO PROBABILMENTE                                  

(It Must Be Heaven, Francia-Canada, 2019, col., 98’, v.o. sott., it.)

Regia: Elia Suleiman

Con: Elia Suleiman, Tarik Kopty, Kareem Ghneim, Gael Garcia Bernal

Vincitore del Premio Speciale della giuria al Festival di Cannes, l’ultimo film di Elia Suleiman lo vede ancora protagonista davanti e dietro la macchina da presa. Il regista palestinese interpreta se stesso, un cineasta stanco di vivere nella claustrofobica Palestina occupata da decenni e che da Nazareth intraprende un viaggio alla ricerca di un posto migliore. Ma da Parigi a New York, il silenzioso Elia (in tutto il film pronuncerà una sola frase) , trova un mondo fatto di checkpoint e divieti, di frontiere e  di limiti, in cui la dimensione surreale è amplificata dalla presenza del protagonista, che nelle diverse situazioni ricorda ora Buster Keaton ora Jacques Tati.  A distanza di dieci anni da Il tempo che ci rimane, Suleiman  mette in scena con lucidità straniante e humour burlesco la grottesca democrazia poliziesca occidentale, vista con la distanza dell’occhio dello  “straniero”, il cineasta palestinese eterno vagabondo che continua a  esplorare il senso di parole come identità, nazionalità, appartenenza e a porsi la domanda: dov’è oggi il posto che possiamo veramente chiamare casa? “Se nei miei film precedenti la Palestina poteva assomigliare a un microcosmo del mondo, il mio nuovo film tenta di presentare il mondo come un microcosmo della Palestina” (Elia Suleiman)

“E’ molto misterioso come un cineasta penetra nel vostro incosciente e si insedia nel vostro sistema di composizione. Prima di realizzare il mio primo film e prima che mi venisse detto che c’erano delle somiglianze, non avevo visto nulla di Tati e di Buster Keaton. I miei cineasti di riferimento erano Antonioni, Bresson, Ozu. E mi sento influenzato più dalla letteratura e dalla filosofia che dal cinema. (.:.) Chaplin lo vedo adesso. Volevo dare più fisicità al mio personaggio, mentre nei film precedenti restava totalmente osservatore e distante» (Elia Suleiman, “Cahiers du Cinéma” , n. 761, dicembre 2019)

“Qualcuno, scommettiamo, obietterà una certa superficialità delle trovate di Suleiman. Ma il fatto è che il suo discorso si concentra proprio sulla superficialità della percezione comune, sull’equivoco di ciò che si dà a vedere, sull’illusione della chiarezza, della trasparenza. E della libertà.  Suleiman osserva, con la sua maschera muta e leggermente frastornata. Ma c’è differenza tra sguardo e sguardo. Bisognerebbe ripeterlo, oggi forse più che mai. E quello di Suleiman è uno sguardo attivo. Come quello di Tati (e alla Tati è anche tutto lo straordinario lavoro sull’amplificazione e la sottolineatura dei suoni). Come quello di Herzog e di Ferrara. È un occhio che “interviene” sulla neutralità apparente del dato reale e la trasforma, la trasfigura. Ma solo per arrivare al cuore del senso, all’angolo nascosto o all’invisibile più scoperto e indifferente, quello che abbiamo sotto al naso e non vogliamo vedere.” [Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi]

D’EST

(Belgio-Francia-Portogallo,  1993, col., 111’, v.o. senza dialoghi)

Regia: Chantal Akerman

Evocazione della guerra. Implosione: così Chantal Akerman su D’est. Viaggio nell’Europa del ‘dopo-Muro’, realizzato in 16 mm., composto per lo più di inquadrature di esterni, fisse o in travelling. ipnotici di straordinaria e insuperata intensità. Nessun commento.   Si passa dall’estate all’inverno, dalla campagna alla città, dai sobborghi al mare, dalla Polonia alla Russia, senza che questi luoghi e questi paesaggi da un paese all’altro siano esplicitamente menzionati e senza alcuna idea di progressione.  I mille volti e corpi di persone qualsiasi, gli assembramenti all’alba o nella notte, i grappoli spettrali di gente imbacuccata che aspetta – il treno, l’autobus, la fine del mondo, non si sa…  Il film D’Est è diventato anche una installazione, la prima realizzata da Chantal Akerman:  Bordering on fiction: Akerman’s “D’Est”, al Walker Art center di Minneapolis ((1993-1995) e ripresa   successivamente  in numerosi altri  musei d’arte contemporanea. Insieme ai successivi Sud (girato in Texas), De l’autre côté (girato tra Arizona e Messico). D’Est   compone una straordinaria trilogia di cinema nomade, “apolide” (cui si può aggiungere anche un ulteriore tassello, Là-bas , girato a Tel Aviv) , che possiamo considerare tra i risultati più alti di una della più grandi registe e artiste del tempo appena trascorso. Di grande, di rivoluzionario, non c’è che il minore, come ci hanno insegnato Deleuze e Guattari attraverso Kafka.

“D’Est è profondamente narrativo perché permette allo spettatore di raccontarsi delle storie. Anche la cornice c’entra molto perché non è mai documentaristica. Non dico: ecco, vi dirò tutto della Russia. Mostro delle impressioni e la gente poi continua dentro di sé.  D’Est non è solo un film sull’Europa dell’Est. Quelle immagini le avevo già in me. Avrei potuto filmare mille altre cose, ho filmato questo perché erano delle riprese che esistevano già nella mia testa. È qualcosa che ha a che vedere con i campi, le evacuazioni, le immagini prima di me” (Chantal Akerman).

“La bellezza di D’Est deriva da questo sguardo su esseri umani di cui non sappiamo nulla. Non sappiamo nulla, lei li guarda. C’è come il desiderio di trasmettere, di captare qualcosa di questo mondo perduto, e nello stesso tempo l’impossibilità di catturarlo. Ci sono lì tutte queste persone che vivono e che non rivedremo più, ci ricorderemo soltanto che hanno vissuto. (…)    Chantal è una donna che fa parlare i morti, ne sente la necessità. Lo fa attraverso l’arte, l’’unica maniera di far rivivere qualcosa che è soltanto nella nostra testa (…) Nei film di Chantal Akerman non si scopre, si riconosce. Ed è precisamente questo il lavoro di un artista” (Christian Boltanski)

 

Sabato 31 agosto dalle 1.15 alle 6.30

RAGGIUNSERO IL TRAGHETTo: FUORI ORARIO VENEZIA 2024 (2)

a cura di Fulvio Baglivi, Simona Fina,  Roberto Turigliatto 

BERLINO-GERUSALEMME

(Berlin-Jerusalem, Francia-Israele 1989, col., 85′, versione italiana.)

Regia: Amos Gitai

Con: Liza Kreuzer, Rivka Neuman, Markus Stockhausen, Benjamin Levy, Vernon Dobtcheff, Veronica Lazar, Bernard Eisenschitz, Bernardo Bertolucci, Pina Bausch.

Il secondo film di Amos Gitai fu presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1989. Alla Mostra di quest’anno il regista presenta in suo ultimo film, Why War

Nel 1919 a Berlino, la poetessa espressionista Else Lasker Schuler, ebrea tedesca, conduce una vita da bohémienne. S’imbatte in Tania, esaltata e attiva sionista esule dalla Russia, dove ha partecipato all’insurrezione del 1905. Tania si trova a Berlino in attesa di poter raggiungere la Palestina per partecipare alla realizzazione del primo Kibbutz, il collettivo agricolo del suo sogno utopistico. Quando Else raggiunge Gerusalemme e ne percorre le strade, dove nuovamente incontra Tania, la città è stata bombardata. Else ne percorre le strade, alle macerie del 1937 si succedono gradualmente altre macerie, fino alle rovine, le scritte, gli automezzi, i militari, le persone del 1989.

«La vicenda di due donne che attraverso diversi itinerari geografici e ideali raggiungono la Palestina per costruirvi il paese di Utopia ma che, qui giunte, si rendono conto dell’impossibilità di realizzare i loro sogni: il film si intitola Berlin-Jerusalem ma non c’ entra col quasi omonimo libro di memorie di Ghershom Sholem pubblicato da Einaudi. O meglio c’ entra nel senso che i suoi personaggi ed episodi si muovono negli stessi ambienti e momenti, quella cultura ebraica dei primi decenni del secolo che costituiva spesso l’ossatura delle avanguardie europee e intanto elaborava le mitologie e le politiche del sionismo e della terra promessa. Il film di Gitai è infatti una storia di finzione, da lui stesso scritta, ma che si basa su due personaggi reali, entrambi eccezionali ed affascinanti. Una è la poetessa Else Lasker-Schuler, frequentatrice dei circoli espressionisti di Berlino, amica o corrispondente di Freud, Rosa Luxembourg, Einstein e Thomas Mann, ricordata soprattutto per le sue Ballate ebraiche scritte in tedesco nel 1913. L’ altra è Mania Shochat, rivoluzionaria russa che dopo la fallita sommossa del 1905 lasciò il paese, passò per Berlino (dove appunto conobbe Else) e raggiunse la Palestina dando vita al movimento dei kibbutz e divenendo poi una insoddisfatta madre della patria, sempre pronta a pungolare da sinistra, dopo la costituzione dello Stato, il leader socialista Ben Gurion. Anche Else, dopo l’inizio delle persecuzioni naziste, si era intanto messa in viaggio per la terra promessa, passando prima per la Svizzera (dove soggiornò ad Ascona, polo magnetico di molti movimenti libertari mistici e estetici nordeuropei del primo Novecento, ottenendo dalla polizia elvetica un permesso scritto per scrivere poesie) e raggiungendo poi la Palestina nel 1937. Il film immagina che le due donne si incontrino un’ultima volta all’ Hotel Vienna di Gerusalemme nel 1944, un anno prima della morte di Else, verificando il fallimento dei loro ideali. Ogni popolo, dice Gitai, ha la sua Terra Santa, il luogo del desiderio nel quale colloca le sue aspirazioni nazionali, ideologiche e religiose. Ma i personaggi del film, dopo averla finalmente raggiunta, si rendono conto che la realtà umana non cambia col cambiare del luogo geografico. La loro grande speranza di creare il luogo del loro desiderio resterà insoddisfatta. Due itinerari e personaggi forse fin troppo esemplari, che ricordano come lo stato di Israele sia il prodotto non solo del sionismo storico ma di tutta una tradizione europea di socialismo utopico, di miti collettivistici e di ritorno alla natura, in cui si univano elementi politici e suggestioni letterarie» (Alberto Farassino, “La Repubblica”, 29 marzo 1989)

FUORI ORARIO: PAROLA SU UNA DATA (Amos Gitai)

(Italia, 2002-2006, col., dur., 24’ca, v.o. sott. it.)

di: enrico ghezzi

A seguito del tragico 11 settembre 2001, enrico ghezzi realizzò una serie di conversazioni filmate con cineasti, filosofi, artisti. Con il titolo PAROLA SU UNA DATA, condussero una personale riflessione sulle immagini dell’attentato alle Torri Gemelle Ciprì e Maresco, Jacques Derrida, Abbas Kiarostami, Amir Naderi, Ermanno Olmi, Luca Ronconi, Jerzy Skolimowski, Susan Sontag, Bela Tarr, Tsai Ming-liang, Slavoj Žižek.

Riproponiamo in questa notte di Fuori Orario la conversazione con Amos Gitai. 

GUERRA E PACE

(Id., Italia, 2020, col., e b/n, dur., 131’)

Regia: Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Nella Mostra di quest’anno D’Anolfi e Parenti, coppia di registi che Fuori Orario segue da molti anni, presentano il loro ultimo film, Bestiari, erbari, lapidari. In questa notte riproponiamo Guerra e pace, che fu anch’esso in prima a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2020

Guerra e pace racconta l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra, dal loro primo incontro, nel lontano 1911, in occasione dell’invasione italiana in Libia, fino ai giorni nostri. Dalle sequenze filmate dai pionieri del cinema alle odierne riprese girate con gli smartphone dai cittadini del mondo, il passo appare brevissimo e la relazione tra cinema e guerra solidissima. Guerra e pace è una riflessione sulle immagini e, come in un grande romanzo scandito in quattro capitoli – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro –, legati ad altrettante istituzioni, dall’Istituto Luce All’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, l’Archivio del Ministero della Difesa francese e quello della Croce Rosse a Losanna. –  prova a ricomporre i frammenti della memoria visiva dai primi del Novecento a oggi e mette in scena la moltiplicazione delle visioni che, come un costante rumore di fondo, accompagnano le nostre attuali esistenze Guerra e pace si interroga sulle conseguenze della guerra, sul senso della storia e della conservazione della memoria.

----------------------------
SCUOLA DI CINEMA TRIENNALE: SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative