La programmazione di Fuori Orario dal 30 giugno al 6 luglio

Skolimowski e il cinema polacco, l’omaggio a Thomas Heise e Hou Hsiao-hsien maestro d’Oriente. Da stanotte.

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Domenica 30 giugno ore 00.30– 6.00

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Fuori Orario cose (mai) viste          

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di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

APOCALYPSIS CUM FIGURIS

a cura di Roberto Turigliatto

EO   prima visione TV

(Polonia-Italia, 2022, col., 85′, v.o. sott. italiani)

Regia: Jerzy Skolimowski

Con: Sandra Drzymalska,, Lorenzo Zurzolo, Mateusz Kościukiewicz, Isabelle Huppert, Lolita Chammah

Dopo la chiusura del circo polacco in cui si esibisce con la giovane circense Kassandra, l’asino di nome Eo attraversa l’Europa e dopo molte peripezie picaresche e incontri imprevisti si ritrova infine in Italia in mezzo a una mandria di mucche portate al mattatoio.  A ottantaquattro anni Jerzy Skolimowski si confronta con il capolavoro di Robert Bresson, Au hasard Balthazar, per ritrarre senza indulgenza – nella brutalità o nell’indifferenza degli uomini – lo stato vulnerabile e forse terminale dell’Europa contemporanea, non diversamente da come aveva fatto in 11 minuti. Ma Eo entra in  risonanza anche con  Essential Killing, dove il talebano fuggitivo e inseguito diventava a sua volta un animale braccato. Il film ha vinto il premio della Giuria al Festival di Cannes.

«Dal momento che il personaggio principale è l’asino gli umani sono visti attraverso i suoi occhi: lo sguardo di un essere che non partecipa alle azioni umane, che spesso non ne capisce le cause e il senso, ma la cui presenza crea un punto di vista originale (…) Ho uno sguardo piuttosto pessimista sul mondo contemporaneo. Sembra che stiamo attraversando un’epoca caotica e opaca della storia dell’umanità. Non mi riferisco solo alle guerre e alle epidemie, ma all’assenza di profondità nelle relazioni umane, che sono dettate solo dal calcolo e dal business. La nostra epoca non favorisce né l’empatia né le ricerche trionfanti della ragione. (…) Ho anche pensato che una struttura formale con tante storie diverse mi autorizzava a una libertà formale totale, così da poter utilizzare la cinecamera in molti modi diversi, compresi i più stravaganti. (…) Questo film mi è molto caro, ci ho messo dentro molto di me stesso e vorrei quasi poter continuare a girarlo per prolungare il piacere di lavorare con una creatura tanto magnifica!» (Jerzy Skolimowski, da un’intervista in “Cahiers du Cinéma”, ottobre 2022)   

11 MINUTI

(11 Minut, Polonia-Irlanda 2015, col.,  dur., 79’, v. o. sott.,it.,)

Regia: Jerzy Skolimowski

Con: Richard Dormer, Paulina Chapko, Agata Buzek, JanNowicki, Dawid Ogrodnik, Andrzej Chyra, Piotr Glowacki, Wojciek Mecwaldowski

Il grande maestro polacco Jerzy Skolimowski racconta e moltiplica con un montaggio apocalittico e cubista gli stessi undici minuti vissuti da personaggi differenti in parallelo. Un film dai tratti profetici che già allora Skolimowski spiegava così: «Camminiamo verso il bordo dell’abisso tra ordine e caos. Dietro ogni angolo si nasconde l’imprevisto, l’inimmaginabile. Niente è certo – il prossimo giorno, la prossima ora, o anche il prossimo minuto. Tutto potrebbe finire all’improvviso, nel modo meno atteso».

«“Un reticolo di vita urbana, con tanti personaggi che vivono in un mondo instabile, dove tutto può succedere in ogni momento. Un’inaspettata concatenazione di eventi  – a effetto domino – può segnare tanti destini in appena undici minuti. È stato uno scherzo matematico, o potrei dire che c’è stata una certa precisione nel coordinare gli episodi. Una volta che ho deciso che avrei raccontato una storia che si svolgeva in un arco di tempo molo limitato, 11 minuti, sapevo che alcune di queste storie si potevano interconnettere facendo così capire al pubblico che succedono simultaneamente (…). Nel film do alcuni segnali che qualcosa di terribile sta per accadere, ma credo di essere riuscito a guidare il pubblico a muoversi istintivamente. Non dovevano sapere quello che sarebbe successo esattamente, ma in un certo senso avere la sensazione quasi di un thriller». (Jerzy Skolimowski)

KILL IT AND LEAVE THIS TOWN                           

(Zabij to i wyjedz z tego miasta, Polonia, 2019, col, dur., 88′, v.o. sott.it)

Regia, suono, set design, art design: Mariusz Wilczyński

Il film parla di un eroe, in fuga dalla disperazione dopo aver perso le persone più care, che si nasconde in una terra sicura di ricordi, dove il tempo si è fermato e tutte le persone a lui care sono vive.

Per il suo primo lungometraggio d’animazione, che ha richiesto quattordici anni di lavoro, Mariusz Wilczyński si è dedicato alla propria biografia e si è messo a nudo. Rovistando in modo irriverente e disinibito nella sua memoria personale e collettiva, popola le strade, i tram e i negozi della città industriale di Lodz con personaggi, frammenti di memoria e melodie orecchiabili che ci riportano al suo mondo infantile degli anni Sessanta e Settanta. Personaggi letterari, eroi dei fumetti, familiari e amici si aggirano anacronisticamente in un vero e proprio cupo labirinto che tuttavia sfida l’oscurità e l’oblio. Wilczyński spinge all’estremo lo stile e la poesia dei suoi precedenti film più brevi, che oscillavano tra i disegni per bambini e l’estetica gotica, testando finanche i limiti di ciò che può essere proiettato, sperimentando ogni sfumatura immaginabile tra il grigio e il nero.

Tra le voci dei personaggi c’è anche quella di Andrzej Wajda.

«Il titolo Kill It and Leave This Town, come il film stesso, ha molteplici significati e livelli. Il suo significato di base è il motivo per cui ho realizzato questo film. Mi sentivo in colpa per non essermi preso cura dei miei genitori anziani, perché ero sempre occupato a fare le mie cose. Ho provato rimorso per non averli abbracciati prima della loro morte. Non li ho salutati. Non ho concluso alcune conversazioni. Volevo incontrarli di nuovo in Kill It and Leave This Town. Li ho disegnati per rimediare a tutte queste cose. Le persone che hanno visto il mio film mi hanno scritto dicendo che grazie al film hanno migliorato i loro rapporti con i genitori. Ora tendono a chiamarli più spesso, a far loro visita se possono, a prendersi più cura di loro. Credo che grazie a questo sono riuscito a eliminare il senso di colpa che avevo dentro di me. Questo è il motivo principale per cui ho realizzato il mio film. Kill It and Leave This Town: uccidere tutte queste cose che ti tormentano, quelle che derivano da qualcosa che hai rotto nella tua vita, e aggiustarlo. L’altro significato è, in realtà, il processo di realizzazione del film. Non mi sarei mai aspettato che ci sarebbero voluti 14 anni, un quarto della mia vita. Da un lato, credo che sia stato il periodo più significativo della mia vita, quando ero così felice di fare qualcosa di così importante per me. Dall’altro lato, ho impiegato così tanto tempo perché morivo dalla voglia di finire il film, di uccidere tutto quello che c’era dentro e di liberarmi. Ci sono riuscito e mi sento finalmente libero […] Naturalmente, tutto si basa sui miei disegni. Ho disegnato a mano tutti gli scenari e i personaggi, ma abbiamo dovuto escogitare nuove idee quando si è andati oltre il semplice disegno. Per esempio, abbiamo ordinato dei piccoli neon personalizzati che abbiamo illuminato. Tutte le luci e i neon sono stati realizzati a mano, così come il vetro con l’acqua che scende. Non abbiamo usato il computer per questo. Quando il treno passa, si può vedere il paesaggio che cambia dal finestrino. Anche questi sono stati disegnati a mano da me e poi abbiamo regolato l’illuminazione in analogico. Solo in un secondo momento abbiamo usato il greenbox per mettere insieme il tutto. Tutto è stato ugualmente affascinante e impegnativo. Tutte queste soluzioni erano nuove: non le avevo mai fatte prima e dovevo inventarmi qualcosa. Ho dovuto diventare un po’ uno scienziato che escogita un’idea per far funzionare le cose. È così che lavoro sempre sui miei film. Prima penso a quello che dovrebbe essere il tema del film, poi penso a tutte queste macchine magiche che mi aiutano a farlo vivere». (J. Murphy, Interview with Mariusz Wilczyński, in “Animation Scoop, febbraio 2021)

 

Venerdì 5 luglio ore 0.55– 6.00

IL FILM È UNO SPAZIO NEL TEMPO. IN RICORDO DI THOMAS HEISE

a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

Thomas Heise ci ha lasciato il 29 maggio. Nato nel 1955 nella Repubblica Democratica Tedesca, Thomas Heise, dopo aver studiato cinema e lavorato come assistente, comincia fin dai primi anni Ottanta a scrivere opere teatrali e radiofoniche e a realizzare documentari che, fino alla caduta del Muro nel 1989, vengono tutti sistematicamente censurati e vietati. Dopo la riunificazione, il suo lavoro sulla cultura dell’Est e la sua attenzione per i temi più critici della storia e della società contemporanea tedesca, vengono definitivamente recuperati e riconosciuti. Heimat è uno spazio nel tempo, già presentato da Fuori Orario, si pone come la summa di questo percorso filmico e di vita. Ma la sua opera è molto ricca, d è sicuramente una delle più importanti in Europa, anche se  aspetta ancora di essere conosciuta  in Italia.

MATERIALE           

(Material, Germania, 2009, b/n e col., dur., 164′, v. o sott. it.)

Regia: Thomas Heise

Presentato alla Berlinale nel 2009 e poi in diversi festival internazionali (ha vinto, tra l’altro, il primo premio del Fidmarseille), il film di Thomas Heise è inedito in Italia. Fuori Orario riproporrà a breve anche il film più recente di Heise, Heimat è uno spazio nel tempo, già trasmesso l’anno scorso.

Il film costruisce un montaggio di materiale filmico non utilizzato di diverso formato (8mm., 16 mm., 35 mm., VHS, Beta SP) girato nel corso di venti anni, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Queste immagini inedite, che costituiscono la materia stessa del film, sono state realizzate per altri film o girate nell’urgenza degli avvenimenti. La domanda di Heise, attraverso il montaggio di questi materiali, non è solo come documentare un paese in  piena  mutazione ma  cosa fare di queste immagini “residuali”.

Il film inizia con il riso di bambini che giocano in un paesaggio di rovine dei primi anni Novanta, e quindi sotto il segno dell’infanzia, del paesaggio e della perdita.  Seguono altri momenti: “Germania Tod in Berlin”, il lavoro di preparazione per la messa in scena del dramma di Heiner Müller sotto la direzione di Fritz Marquandt nel 1998; lo sgombero delle case occupate della Mainzer Strasse; le manifestazioni di massa di oltre un milione di persone raccolte sull’Alexanderplatz alla fine del 1989. I resti disparati di una storia tedesca. Secondo Heise “la forma risulta dal materiale”, non gli viene sovrapposta.

Material è così non solo una potente e ineguagliata riflessione personale sulla storia della Germania ma anche un’interrogazione sulle forme della propria stessa scrittura filmica. Heise (nato a Berlino Est nel 1955) prosegue un lavoro cominciato negli anni Ottanta nella RDT, durante i quali è stato non solo documentarista ma anche regista teatrale (discepolo, tra l’altro, di Heiner Müller): un lavoro che è stato oggetto costante della censura da parte delle autorità e che solo in anni più recenti si è potuto scoprire: un lavoro che ne fa uno dei maggiori cineasti tedeschi degli ultimi decenni.

“‘Material è uno dei film più belli visti in questi giorni berlinesi. Commovente, appassionato, scommette sull’intelligenza del dubbio contro l’autoritarismo. È una riflessione importante sull’immagine e sul suo valore oggi, cosa e quanto ci dice, e in che modo vi entra il sentimento personale, la partecipazione di un’esperienza. Filmare per Heise è un gesto di resistenza ma anche, o forse soprattutto, di una prima persona del ‘frammento’, che vuole ancora mettersi in gioco.” (Cristina Piccino, Il Manifesto, 13 febbraio 2009)

 

Sabato 6 luglio ore 1.35– 6.30

POLVERE NEL VENTO. MAESTRI D’ORIENTE  (8)

a cura di Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

CUTE GIRL

(Chiu shihi liu-liu te ta, Taiwan, 1980, col., dur., 86′ v.o. sott. it.)

Regia: Hou Hsiao-hsien

Con: Kenny Bee, Feng Fei-fei, Anthony Chan

Nella notte Fuori Orario presenta due dei primi film diretti da Hou Hsiao-hsien tra il 1980 e il 1982, prima della grande rivelazione internazionale della nouvelle vague taiwanese, di cui lui e Edward Yang sono i due grandissimi maestri. Restaurati da Cinematek, i due film appartengono al periodo cosiddetto “commerciale” di Hou Hsiao-hsien e per volontà dello stesso regista non furono mostrati all’estero prima della Retrospettiva della Cinémathèque Française del 1999. Rimasti poco conosciuti e poco considerati, mostrano non solo l’apprendistato artigianale del cineasta, ma rivelano già uno sguardo originale e libero che si affermerà compiutamente a partire dal film a episodi The Sandwich Man e  poi nel primo capolavoro, I ragazzi di Fengkwei, già presentato recentemente da Fuori Orario., che continuerà anche in futuro a esplorare l’opera del regista.  

Quando realizza Cute Girl, il regista ha 32 anni, ha già lavorato con diversi ruoli sui set del cinema taiwanesese, ha dunque un’esperienza pratica che gli permette di scrivere, girare e montare il film in due mesi. Kenny Bee e Feng Fei-fei erano due note pop-stars a Hong Kong e Taiwan e torneranno nel secondo film di Hou, Cheerful Wind, interpretando anche le canzoni.

Wenwen è una ragazza di buona famiglia promessa al figlio di un ricco industriale che ha studiato in Francia e di cui si attende il ritorno per celebrare il fidanzamento.   Ma la ragazza comincia ad avere dei dubbi e parte per la campagna dove abita la zia. Qui ritrova Daigan, un ragazzo di condizioni apparentemente modeste che vive a Taiwan con un bambino adottato ma che è venuto anche lui in campagna per la costruzione di un’autostrada.

Grande successo in patria, il film si muove solo apparentemente nel solco delle “commedie romantiche” taiwanesi (che si rifanno a modelli classici). Hou Hsiao-hsien è infatti già al di là del cinema “commerciale” di Taiwan e inventa un cinema libero: nei tempi, nel gioco con gli attori, nell’apertura al mondo (la città e la campagna): «I miei primi film esprimevano i sentimenti in un modo completamente nuovo (…) Abbiamo deciso di filmare gli attori insieme, secondo un metodo che fosse vicino nello stesso tempo sia al teatro che alla vita. Il cinema si è trovato di colpo “modernizzato”» (Hou Hsiao-hsien)

GREEN, GREEN GRASS OF HOME                         

(Tsai na ho-pang ching-tsao-ching , Taiwan, 1982, col.  dur. 87’, v.o. sott. it.,)

Regia: Hou Hsiao-hsien

Con: Kenny Bee,  Avec Kenny Bee, Chang Ling,  Meifeng Chen, Ling Jiang (Xian-Wang)

Film restaurato da Cinematek (Cinémathèque Royale de Belgique)

La maestra di un villaggio si trasferisce in Indonesia per seguire suo marito e si fa sostituire dal fratello, Ta-nien, originario di Taipei. Il nuovo maestro fa la conoscenza dei bambini della sua classe, e in particolare dei “tre moschettieri”. Attratto dalla sua collega Chen Su-Yun e dall’atmosfera della campagna, dimentica le seduzioni della vita cittadina e scopre una nuova vita.

Col suo titolo ripreso da una canzone famosa, è la terza “commedia romantica” del regista, dopo Cute Girl e Cheerful Wind del 1981.  Vi  ritroviamo la star di Hong Kong Kenny Bee, ma la maggior parte degli attori lavorano per la prima volta col regista. Si può seguire da un film all’altro l’affascinante progredire dello stile che sarà compiutamente  proprio del regista nei suoi film successivi.  I bambini sono coprotagonisti e alcuni di loro furono premiati al Golden Horse Film Festival, dove il film ebbe  la nomination anche come miglior film e migliore regia. Dallo stile in  parte improvvisato, girata quasi completamente in campagna, la storia d’amore “classica” lascia il posto alla cronaca quotidiana dell’infanzia, non senza  variazioni comiche che possono far pensare ai film di Ozu degli anni Trenta.

 “Tutti i miei ricordi di gioventù sono ricordi di campi, di alberi di cocco, di treni… Questi ricordi contano molto per me e sarebbe impossibile non ritrovarli nei miei film” (Hou Hsia-hsien)

 

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