La programmazione di Fuori Orario dall’8 al 14 settembre

Sergej Paradžanov, Philippe Garrel, Yasujiro Ozu, Jean Eustache, Jean-Luc Godard e Jean Vigo. Da stanotte.

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LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO DI SENTIERI SELVAGGI

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Domenica 8 settembre dalle 2.15 alle 6.00

Fuori Orario cose (mai) viste                                                    

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di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta                                           

RAGGIUNSERO IL TRAGHETTO. FUORI ORARIO VENEZIA 2024 (6)

a cura di Fulvio Baglivi, Simona Fina, Roberto Turigliatto

IL GRANDE CARRO                  PRIMA VISIONE TV

(Le grand chariot, Francia, Svizzera, 2023, col., dur. 95′,, v.o. sott.it.)

Regia: Philipe Garrel

Con: Louis Garrel, Esther Garrel, Aurélien Recoing, Francine Bergé, Léna Garrel, Mathilde Weil, Damien Mongin 

Orso d’Argento per la Miglior Regia alla 73ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino

Sarebbe fuorviante ridurre a una questione di famiglia Le grand chariot, l’ultimo film di Philippe Garrel presentato in concorso alla Berlinale 2023. È molto di più e anche altro. Certo, la storia è quella di una famiglia, un nucleo di burattinai guidato dal padre (Aurélien Recoing) e composto dai figli (che sono in gran parte figli dello stesso Garrel, ovvero Louis, Léna, Esther). Con loro c’è la magnifica figura della nonna, incarnata in Francine Bergé. Il teatro delle marionette, però, si avvia al tramonto: i bambini vengono ancora intrattenuti dal talento dei burattinai, eppure sono gli ultimi fuochi.

Il grande carro è un film intimo e molto personale, con un evidente tono autobiografico (Maurice Garrel, padre di Philippe, prima di diventare attore era burattinaio nella compagnia di Gaston Baty), ma è anche una vera e propria dichiarazione al mondo dell’arte. Garrel usa il cinema per parlare (come sempre) di arte, vita, morte. Storie della sua famiglia di sangue che s’accompagnano a quelle della famiglia di cinema (dietro il copione ci sono i padri/madri nobili Jean-Claude Carrière, per sempre legato a Buñuel e morto due anni fa, e la pialatiana Arlette Langmann), pezzi di vita reale che combaciano perfettamente con l’irrealtà di storie però sempre possibili, universali. Il grande carro ruota attorno alla famiglia e agli affetti messi costantemente in primo piano da Garrel. Il bisogno di sentirsi amati e supportati, ma anche le inevitabili separazioni, o addirittura il lutto, mettono a dura prova i protagonisti. Ognuno prenderà la propria strada nella consapevolezza che anche la morte è un accadimento del tutto inscritto nella natura delle cose e dell’universo, e dunque la morte può essere sconfitta come nella finzione fa Pulcinella. La fotografia del grande dop Renato Berta conferisce a questo romanzo familiare una luce calda e soffusa e, per una volta, Garrel rinuncia al bianco e nero che spesso l’ha contraddistinto in un film che ha il sapore di un lascito artistico per le generazioni future.

«… un film che, sebbene nato dalla mia immaginazione, somigliasse anche a un documentario su questo mestiere. Jean-Luc Godard ha detto che un buon film di finzione deve anche essere un documentario su qualcosa. Nella disgregazione di una compagnia di artisti-burattinai, vedo la metafora di un mondo dove le tradizioni stanno morendo». (Philippe Garrel)

IL COLORE DEL MELOGRANO

(Sayat Nova, URSS-Armenia, 1966, col., dur., 77’, v. o. sott., .it.)

Regia: Sergej Paradžanov

Con: Sofiko Čiaureli (il Poeta da giovane/l’amata del Poeta/la monaca in pizzo bianco, l’Angelo della Resurrezione/il mimo), Melkon Alekjan (il Poeta da bambino), Vilen Galustjan (il Poeta monaco), Georgij Gegečkori (il Poeta anziano)

Il capolavoro di Sergej Paradžanov, è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Film Foundation, a partire dalla copia di distribuzione armena proiettata nell’ottobre del 1969 a Erevan con integrazioni dalla copia sovietica.

Una fantasia poetica su Sayat Nova (ca. 1712-1795), trovatore armeno (ashugh) che componeva i suoi versi in lingua armena, azera e georgiana. A un tempo solenne e sensuale, il film celebra lo spirito creativo transcaucasico attraverso una successione di dipinti, pantomime, oggetti di folklore e quadri allegorici in un’atmosfera autenticamente armena. L’estetica radicale del film ha ispirato registi quali Jean-Luc Godard e Mohsen Makhmalbaf.  Paradžanov aveva strutturato la sceneggiatura originale in una serie di “miniature” che dovevano evocare i principi pittorici e narrativi dell’arte armena e persiana.

 “Guardare Sayat Nova, è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. (…) I tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli”. (Martin Scorsese, dal catalogo di Cinema Ritrovato, 2014)

DUE ORE IN UNA STANZA CON GIANNI E PARADJANOV

(Italia, 1988, col, dur., 50’, v. o. sott. it.)

Conversazione tra  Sergej  I. Paradžanov  e Gianni Buttafava all’Hotel Des Bains durante la Mostra del Cinema del 1988 

“L’ultimo lavoro fatto con Gianni. C’eravamo persi (invece la voce, la sua voce, era lì, celata alla nostra distrazione da “un’altra pista”) la sua traduzione in voce di buona parte della lunga impossibile (definirla così) “intervista” con Paradjanov registrata in video durante la Mostra del Cinema del 1988 a Venezia, e pochi mesi fa era tornato a prepararci i sottotitoli. Settembre 1988 al Des Bains, la stanza d’albergo di Paradjanov (che non aveva tempo e poi ne aveva troppo) sembrava di volta in volta enorme e piccolissima, come in un film dei Marx. Conteneva due intervistatori di Libération, un fotografo belga con un’altra fotografa e assistente, due o tre amici di Paradjanov (un altro andava e veniva dal bagno), tre persone della nostra troupe RAI, Gianni e io, un telefono sempre in linea. E Paradjanov continuava a attraversarla in qua e in l`, a scarti più che a scatti, svelando cimeli portati lì per scambio o vendita impossibile, per omaggio affettuoso a “amici” italiani (“Dov’è Fellini?” gridava “Dov’è ‘tanina’ Guerra, dov’è la Masina, dov’è Mastroianni”, e chiedeva ogni cinque minuti se poteva avere una cassetta di Amarcord o de La nave va, prima di partire)”.  (enrico ghezzi, dal catalogo della 37° edizione del Torino Film Festival, novembre 2019)

FIORI D’EQUINOZIO

(Higanbana, Giappone, 1958, col.,  dur. 113’, v.o. sott. it.,)

Regia: Yasujirō Ozu

Con: Saburi Shin, Fujiko Yamamoto, Yoshiko Kuga, Tanaka Kinuyo, Arima Ineko, Chishū Ryū, Sada Keiji

Primo film a colori di Ozu, versione restaurata.

Wataru Hirayama, a parole padre moderno di due giovani figlie, va in crisi quando una delle due rivela di avere una relazione da molto tempo e di volersi sposare. Le donne della famiglia si uniscono per sbloccare la situazione.

A suo agio anche con la commedia, Ozu non rinuncia ad affinare il suo sguardo morale e la sua riflessione sulla modernità.

“Poiché potevo disporre di Yamamoto Fujiko (grande attrice giapponese) ho pensato di fare una commedia vivace”. “Secondo me basta fare tranquillamente dei film che incassano, senza parlare troppo di arte”. (Y. Ozu, Scritti sul cinema, a c. di F. Picollo e H Yagi, Donzelli 2016).

 

Venerdì 13 settembre dalle 1.15 alle 6.30                        

LA CICATRICE INTERIORE (1)

a cura di Roberto Turigliatto 

LA MAMAN ET LA PUTAIN 

(Francia, 1973, b/n, dur., 210’, v.o. sott. it.)

Regia: Jean Eustache

Con: Bernadette Lafont, Jean-Pierre Léaud, Françoise Lebrun, Isabelle Weingarten

Uno dei capolavori degli anni Settanta “un distillato culturale del periodo post-nouvelle vague e post-maggio francese – e di quel periodo è una delle grandi opere, accanto ai contemporanei di Eustache: Rivette (il cui Out 1 fu per lui un grande stimolo), Moullet, Pialat, Garrel, Téchiné e Rozier. Nel suo andirivieni tra naturalezza e teatralità, il film si nutre della consapevolezza del passato del cinema, tra Renoir e Murnau, entrambi richiamati con discrezione”. (Bernard Eisenschitz, dal catalogo di Cinema Ritrovato, 2022)

Alexandre è un dandy gentile ed egocentrico, senza lavoro, che nella Parigi del dopo 68 conduce una vita senza scopo e convive con Marie, che gestisce una piccola boutique di moda. Alexandre ama Parigi di notte, mentre di giorno va a zonzo per le terrazze dei caffè e discute col suo amico Charles. Una mattina va a cercare la sua ex fidanzata, Gilberte (un nome tanto caro a Proust): la supplica di sposarlo ma non viene preso sul serio. Più tardi Alexandre, al caffè Les Deux Magots, incrocia lo sguardo di una ragazza e le chiede il suo numero, per poi richiamarla il giorno successivo. Si tratta di Veronika, un’infermiera che lavora in un ospedale. Alexandre la invita a casa di Marie per ascoltare un vecchio disco. Nasce un ménage a tre: la tenerezza, il piacere, l’angoscia, la follia, la libertà sessuale, il dolore e le rovine dell’amore, la sofferenza al limite del sopportabile…

«Il mio film adotta un’estetica che si raccorda al carattere dei personaggi. Cosciente del problema della durata, sono stato obbligato a fare come ho fatto, perché il tempo era il soggetto del mio film. Non raccontavo una storia in cui i personaggi evolvono secondo i soliti canoni, realizzavo un film in cui non succede nulla; ho pertanto avuto bisogno di molto tempo per filmare un momento, un istante indefinito, una stasi.  (…) Il film inizia in prima persona per terminare con numerose prime persone. Comincia al singolare e finisce al plurale.  (…) La maman et la putain è un film sulla parola. Tra il momento in cui ho scritto il film, il momento in cui ho girato e il momento in cui ho montato, ho cambiato completamente parere su chi fosse il personaggio principale. Quando scrivevo il film, era Jean-Pierre Léaud; poi è diventato Françoise Lebrun e, alla fine, Bernadette Lafont. Io stesso ho subito le modificazioni del film. Forse perché mi piace lavorare liberamente, i tre momenti principali della realizzazione – scrittura, riprese, montaggio – si sono distrutti a vicenda» (Jean Eustache, Positif, n. 157, 1974)

«La sceneggiatura di Eustache, consegnata al produttore Cottrell solo pochi giorni prima dell’inizio della lavorazione, era composta interamente da dialoghi, che dovevano essere pronunciati alla lettera. “La ripresa giusta è quella in cui gli attori riescono a dire le loro battute” disse a chi scrive queste righe. Se si è molto insistito sui complessi passaggi tra realtà e finzione, scarsa attenzione invece è stata prestata al fatto che Eustache stesse scrivendo per i suoi due interpreti principali, Jean-Pierre Léaud e Françoise Lebrun: “Se avessero rifiutato di lavorarci non avrei girato il film”. Così ciascun attore reagì in modo diverso: Léaud, come sempre, attraverso una sorta di mimetismo con il suo regista; Lebrun recitando contro il suo personaggio; quanto a Bernadette Lafont, nuova all’esperienza e incurante del contesto, riversava nella sua recitazione una rabbia che non aveva mai mostrato prima. C’era amore nel modo in cui Eustache li filmò, e ne ricavò interpretazioni uniche» (Bernard Eisenschitz, op. cit.)

«Ho l’impressione di vivere con questo film da quando esso esiste. Come molte altre persone dell’ambiente del cinema mi sono posto la domanda di come si potrebbe rifare qualcosa di simile, come si potrebbe raggiungere ciò che Eustache ha raggiunto. Credo che la risposta sia che non si può. In questo film Eustache ha riassunto e portato a compimento l’idea che era quella della Nouvelle Vague. Ha fatto il film che era stato teorizzato dalla Nouvelle Vague» (Olivier Assayas)

HISTOIRE(S) DU CINÉMA

episodio 2/a (3): SEUL LE CINÉMA (Solo il cinema)

(Francia, 1988-1998, b/n e col., dur., 27′, v.o. sottotitoli italiani)

Di: Jean-Luc Godard

Fin dalla fine degli anni ’70 Godard aveva pensato a   una serie di film dal titolo Introduction à une véritable histoire du cinéma et de la télévision. Il progetto ha infine preso forma negli otto episodi  realizzati dal 1988 al 1998, un periodo che  –  tra l’altro  – coincide pressappoco proprio con i primi dieci anni di vita di Fuori Orario.

«Non ricordo più in quale episodio dico che senza il cinema non avrei saputo di avere una storia. Questo mi ha permesso di pensare alla mia stessa storia e di inserirla in una più grande che si trovava ad un tempo fuori e dentro di me. Mostrare ciò che sentivo, sentire ciò che mostravo. In fondo negli otto episodi alla domanda “Che cos’è il cinema?” non fornisco otto risposte, piuttosto ne suggerisco centomila possibili (..) Se dovessi mettere un sottotitolo a queste storie del cinema, scriverei Archivio del tempo presente, o Nuovo modo di guardare gli archivi del tempo presente».

Già nel 1956, quando era un giovane critico, Godard aveva intitolato un suo scritto: Le montage mon beau souci (Il montaggio, mio dolce affanno), un’espressione che ricorre più volte nelle Histoire(s). Ne sarebbero seguiti oltre 70 anni di strenuo e ininterrotto corpo a corpo col cinema e il suo “mistero”.

 

Sabato 14 settembre dalle 1.10 alle 6.30                

LA CICATRICE INTERIORE (2)

a cura di Roberto Turigliatto

MES PETITES AMOUREUSES – I MIEI PRIMI PICCOLI AMORI

(Francia, 1974, col., dur., 119′, v.o. sott.it.)

Regia: Jean Eustache

Con: Martin Loeb, Jacqueline Dufranne, Ingrid Caven, Diony Mascolo, Henri Martinez, Jean.Noêl Picq, Maurice Pialat, Pierre Edelman, Caroline Loeb

Il titolo riprende quello di una poesia di Arhur Rimbaud.

A lungo sottovaluto e incompreso, il film è oggi considerato un capolavoro altrettanto cruciale del precedente La maman et la putain, come ha scritto Bernard Eisenschitz, al di là dei complessi rapporti tra realtà e finzione (qui l’infanzia e l’adolescenza provinciale di Eustache),  la confusione a proposito dell’autobiografia non ha più ragione di esistere, così come il mito dell’auteur maudit  (dopo il suicidio di Eustache). Anche Mes petites amoureuses, come La maman et la putain, oggi può essere visto per il suo vero valore.

In Mes petites amoureuses Eustache racconta il passaggio all’adolescenza come un momento doloroso, con la scoperta del desiderio, e la vocazione all’isolamento. Daniel vive con sua nonna a Pessac, piccolo villaggio vicino a Bordeaux, e trascorre le giornate della sua infanzia con i suoi amici. Terminato l’anno scolastico, Daniel viene costretto dalla madre a trasferirsi a Narbonne, dove la donna vive con il suo amante José. Daniel vorrebbe tornare a Pessac per continuare la scuola, ma sua madre, che non può permettersi di continuare a pagargli gli studi, lo manda a lavorare come apprendista in un negozio di riparazioni dei ciclomotori. Daniel avrà modo di farsi nuovi amici e di provare i suoi primi tormenti d’amore.

«Ritorno dell’autore all’età interrotta di Pessac e di Narbonne, al suo “qui e ora”, Mes petites amoureuses è un film misterioso, per nulla accattivante, specie se raffrontato alla quasi totalità delle narrazioni su infanzia e adolescenza. (…) L’esplorazione silente in cui scopre l’ineluttabilità di un futuro annunciato (alla stregua di un giovanissimo Rimbaud del “tutto-già -vissuto”, il cui verso risuona fin dal titolo) fa del piccolo Daniel una mise en abyme continua e complessa, ritratta nella promenade di Narbonne con la più struggente delle apparizioni di Jean Eustache nei suoi film: il cineasta che incontra la sua immagine adolescente, seduta dirimpetto, lo sguardo dello sguardo, passato e presente annullati, nel tournage che riprende se stesso.» (Luca Bindi, Jean Eustache, Milano-Udine 2019)

L’ATALANTE    

(Francia, 1934, b/n, dur., 85′, v. o. sott., it.)

Regia: Jean Vigo

Con: Dita Parlo, Jean Dasté, Michel Simon

«Nel febbraio 1934, Jean Vigo, malato, ha terminato il montaggio di L’Atalante, in uno scambio costante con la sua ‘banda’, vale a dire il suo gruppo di amici che, insieme al montatore Chavance, tiene al corrente il regista quando questi non è fisicamente presente. A quel punto Vigo lascia Parigi per riposarsi, mentre Maurice Jaubert, suo complice, compone la musica. Non troverà più la forza per riprendere il montaggio, come si augurava. Il suo collaboratore Albert Riéra, propone di condensare la narrazione, ma J.L. Nounez, il produttore, rifiuta che qualcuno si sostituisca al regista. Solo dopo una proiezione per gli esercenti dall’esito disastroso, Nounez accetta la proposta del coproduttore e distributore GFFA di sostituire la musica di Jaubert con una ‘canzone realistica’ adattata dall’italiano, Le Chaland qui passe. Titolo con il quale il film uscirà nel mese di settembre, poco prima della morte di Vigo. Nel frattempo, una copia dell’Atalante autentica è stata inviata a Londra, a quanto pare affidata da Maurice Jaubert ad Alberto Cavalcanti. Ed è questa la copia-guida, immagine e suono, su cui è stato rigorosamente condotto il nuovo restauro. È stata reintegrata l’inquadratura aerea finale, girata da Kaufman su istruzioni di Vigo, già prevista in tutta la sua lunghezza nel commento musicale di Jaubert; e alcuni tagli (usura? censura? proiezionisti voyeur?) sono stati completati grazie ad alcune copie di Le Chaland qui passe, la cui pellicola fu mutilata solo a seguito dell’esclusiva del film al cinema Le Colisée, quando GFFA si appellò alle proteste di vari spettatori per raccomandare i tagli. L’ottica adottata è stata quella di affidarsi al film nella sua veste originaria, quella degli anni 19331934, senza tentare di adattarlo alle abitudini degli spettatori del XXI secolo.» (Bernard Eisenschitz, dal catalogo di Cinema Ritrovato, Bologna, 2017)

“L’Atalante contiene tutte le qualità di Zéro de conduite e altre ancora quali la maturità, la maestria. Vi si trovano, riconciliate, due grandi tendenze del cinema, il realismo e l’estetismo. Ci sono stati nella storia del cinema dei grandi realisti come Rossellini e dei grandi esteti come Ejzenštejn, ma pochi cineasti si sono provati a fondere le due tendenze quasi fossero contraddittorie.  (…)  Ritengo che spesso si sottovaluti L‘Atalante vedendovi un piccolo tema, un tema ‘particolare’ in opposizione al grande tema ‘generale’ trattato in Zéro de conduite. L’Atalante affronta in realtà un grande tema, raramente trattato dal cinema, l’esordio nella vita di una giovane coppia, le difficoltà di adattarsi l’uno all’altra, con all’inizio l’euforia dell’accoppiamento (ciò che Maupassant chiama “il brutale appetito fisico ben presto spento”), poi i primi scontri, la rivolta, la fuga, la riconciliazione, e finalmente l’accettazione dell’uno da parte dell’altra.” (François Truffaut, Les Films de ma vie, 1975)

 “Spremuti e premuti da 35 anni di visioni e da pochi secondi di infinita e sfinita memoria, dieci film. Proiettati in un futuro anche solo di un attimo, come forse sempre dovremmo immaginarcelo, se ancora fossimo capaci di amare. L’Atalante di Vigo, allora, perché sublima proprio la lotta del cinema contro la morte dentro la morte, reinventando la sovrimpressione come atto d’amore tra immagini. E perché la lieta fine non è lieta e non è fine, la follia dell’amore coniugale vista dall’alto come solo il cinema o un dio…(enrico ghezzi, Cento film in dieci minuti, Il Manifesto, 21 giugno 1994) 

IL SALE DELLE LACRIME 

(Le sel des larmes, Francia, 2020, col., dur., 97′, v. o sott. it.)

Regia: Philippe Garrel

Con: Logann Antuofermo, Oulaya Amamra, André Wilms, Louise Chevillotte, Souheila Yacoub, Martin Mesnier, Teddy Chawa, Aline Belibi

Spinto dal suo desiderio di diventare un ebanista, Luc arriva a Parigi. Perso nelle banlieues, chiede indicazioni a Djemila, una ragazza timida in cui Luc intravede la possibilità di un’avventura. I due si incontrano di nuovo, ma poi Luc deve tornare a casa da suo padre, che è anche lui un falegname. Lì incontra Geneviève, che conosce da molto tempo, e inizia una storia d’amore con lei. Quando a Luc viene offerto un posto alla rinomata scuola per mobilieri École Boulle, segue il suo sogno e si trasferisce a Parigi, lasciandosi Geneviève alle spalle. Ben presto, una terza giovane donna entra nella sua vita, portando con sé la libertà della grande città.

Attraverso la magnifica fotografia in bianco e nero di Renato Berta, Philippe Garrel ritrae un’educazione sentimentale, che è in realtà un racconto crudele della giovinezza.

«In che modo, in rapporto a un tema e a uno schema classico – lo studio della coppia che è stato fatto fin dalla notte dei tempi – si poteva cercare di creare situazioni che non erano mai state espresse? Mi piace un artista quando mostra qualcosa che non è mai stato fatto. È per questo che giovanissimo ho preso Godard come mio oggetto di ammirazione». (Philippe Garrel).

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