Little Jaffna, di Lawrence Valin
Un film di genere che sa anche aprire uno squarcio sulla diaspora Tamil a Parigi e che ha la spavalderia e la dedizione dell’esordiente. VENEZIA81. Settimana della Critica.
– “Sei un Tamil dello Sri Lanka?” – “Sono francese, signore“. Venticinque anni dopo L’odio in cui un poliziotto scatarrava coi suoi colleghi il fatto che Saïd fosse un nome francese, a queste seconde e terze generazioni (quando si finirà di contarle come fossero innesti botanici???) tocca ancora e sempre certificare l’ovvio. Michael (lo stesso Lawrence Valin) è un giovane Tamil che si è trasferito in Francia all’età di quattro anni per scampare al genocidio che il governo dello Sri Lanka stava mettendo in atto verso la sua etnia. Diventato poliziotto, gli viene chiesto di infiltrarsi all’interno della sua comunità d’origine, presieduta dall’anziano ma venerato boss Aya, che traffica in vari e criminali traffici a Little Jaffna, quartiere di Parigi a prevalenza indiana, per fornire sostegno economico ai ribelli rimasti in madrepatria. Ma legatosi emotivamente sia al capobanda che al suo fido scudiero Puviraj, il giovane agente dovrà fare i conti anche con la funesta eredità paterna.
Little Jaffna è l’esordio sul lungometraggio di Valin che porta a maturazione l’omonimo corto del 2017. I tempi più distesi gli permettono soprattutto di delineare con brio registico – evidenti gli omaggi al The Departed scorsesiano con un long take molto bello e al robusto filone di genere – e partecipazione la vita dei membri borderline della gang, dai vestiari e dai capelli colorati come gli occidentalizzati protagonisti di tanti film di Takashi Miike. Più evanescente e meno empatica invece l’osteggiata storia d’amore del coprotagonista Puvi con la figlia della banda rivale dei Killz, che ha l’ulteriore pecca di rubare spazio scenico al dissidio interiore di Michael. – “Cosa significa essere il figlio di un bombarolo suicida?” – gli chiede infatti a metà film il profiler che sta testando la sua forza psicologica per questa ardua missione d’infiltrazione. Pur arrivando a dare una spiegazione al dramma paterno, Vasil non approfondisce le dinamiche che portano a gesti estremi chiunque subisca un omicidio su larga scala dal proprio Stato, accontentandosi di dare un piccato riassunto della vicenda storica nella didascalia finale. Un esordio comunque gustoso, increspato solo da una ridondante aderenza al canone di genere