"Ma che colpa abbiamo noi è un piccolo mosaico delle fragilità d'oggi". Incontro con Carlo Verdone

A tre anni di distanza da C'era un cinese in coma, questo nuovo film segna l'inizio della seconda fase della carriera del regista. Una commedia brillante e a tratti drammatica sulle piccole nevrosi che affliggono la vita quotidiana.

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Sabato 4 gennaio, Carlo Verdone presenta al cinema Medica Palace di Bologna la sua ultima fatica: Ma che colpa abbiamo noi. Lo accompagnano due giovani attori emergenti, rivelazioni delle ultime stagioni del cinema italiano, Stefano Pesce e Anita Caprioli.


È la storia di otto personaggi, diversi per età e modi di pensare, che dopo la morte della loro analista durante una seduta decidono di continuare la terapia di gruppo "autogestendosi", in modo da non interrompere bruscamente un percorso di analisi durato più di un anno. È un film corale, commedia leggera e sofisticata che spesso si colora di venature drammatiche, e che mostra con partecipazione i problemi che affliggono la quotidianità: rapporti interpersonali, mancanza di autostima, bulimia, omosessualità. Durante la conferenza stampa, Carlo Verdone, insieme ai due attori, cerca di tirare le fila di un lavoro durato tre anni e del quale, come lui stesso afferma, è "molto soddisfatto".

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Ci parli di questo suo ultimo film.


C'era un cinese in coma era stato un film dignitoso ma, per così dire, di passaggio. Ho aspettato tre anni perché mi sembrava il tempo giusto per riflettere e ripartire con una nuova fase, più matura, della mia carriera. Ho deciso di farlo senza fretta, tranquillamente, e alla fine mi sono affezionato all'idea di un film che raccontasse le piccole fragilità e debolezze di ognuno di noi. Lo definirei una commedia brillante, simile forse a Maledetto il giorno che t'ho incontrato e a Compagni di scuola, ma in fondo diversa da loro e anche dai miei primi film. Non si tratta, di fatto, di un film sull'analisi, ma di un film sulle fragilità di sempre, sui problemi che le persone hanno e dei quali spesso demandano la soluzione all'analista, in modo da scaricare su di lui la responsabilità. Direi che Ma che colpa abbiamo noi è un piccolo mosaico delle fragilità d'oggi.


Lei ha mai pensato di entrare in analisi, o ci è mai stato?


Io mi sono laureato in Storia delle Religioni ma, appena finita l'Università, ho iniziato quasi subito a lavorare in teatro. Inizialmente il passaggio dal mondo universitario al palcoscenico non è stato facile, così ho avuto bisogno di una terapia d'appoggio per un periodo di circa sei mesi. È stata una terapia leggera, alla quale mi sottoponevo dopo gli sketch a teatro, che però mi ha aiutato a superare i problemi che avevo, soprattutto il rapporto tormentato con il mio corpo e la paura di non farcela. Maledetto il giorno che t'ho incontrato, per certi versi, è stato un film nel quale ho raccontato me stesso con estrema libertà, in cui mi sono anche preso in giro. E devo ammettere che, in questi ultimi anni, le dimensioni del sacchetto delle medicine che porto sempre con me si sono notevolmente ridotte.

Il titolo di questo ultimo film sembra quasi rimandare a una valenza politica. Viene da chiedersi di che cosa abbiamo colpa, dove sta la nostra responsabilità di quanto accade giorno per giorno intorno a noi.


È la responsabilità della vita. Di quello che effettivamente accade intorno a noi, ma più da un punto di vista esistenziale. In questo, cioè nel prendere coscienza delle responsabilità, è fondamentale l'apporto dell'ironia, che può aiutare moltissimo. Del resto la vita è fatta così, e non possiamo farci niente. 


Nel film è interessante osservare il ruolo di uno dei personaggi, che a un certo punto scompare per poi ritornare, ma come un morto, che permette il ricongiungimento di tutti gli altri. Che cosa l'ha spinta a questa scelta?


Mi attirava l'idea di un personaggio che lascia la vita. Cioè di un personaggio che, a un certo punto, lascia il gruppo con il quale ha condiviso l'analisi e decide di non farne più parte. E lasciando il gruppo lascia anche la vita. Un personaggio di questo tipo riesce sempre a scuotermi, in qualche modo. Pur nella sua drammaticità, vedo questo momento come un inno alla vita. 


Si è rivolto a qualche analista professionista durante la stesura della sceneggiatura?


Nella mia mailing-list c'è anche un analista, ed è a lui che ci siamo rivolti mentre scrivevamo la sceneggiatura di Ma che colpa abbiamo noi. Quando avevamo qualche dubbio, lo interpellavamo e lui interveniva in nostro aiuto con la riposta corretta. 


Prima lei parlava di Compagni di scuola, che è anch'esso un film corale, e che ha molti punti in comune con Ma che colpa abbiamo noi. Mi pare però di rilevare che rispetto a quel film, in questo ci sia più ottimismo.


Sì, c'è più ottimismo. C'è, non saprei come definirlo, un respiro leggero che attraversa il film e che si sente soprattutto nella seconda parte, quella dell'agriturismo. Tutti i personaggi, in qualche modo, riescono a trovare una via d'uscita, anche parziale, per risolvere i loro problemi. È strano anche il fatto che uno dei miei film con tematiche maggiormente impegnative sia anche uno dei più positivi.


La data di uscita di Ma che colpa abbiamo noi, prevista per il 10 gennaio, sembra voler prendere le distanze dal periodo natalizio, come se lei avesse voluto fare un film destinato a durare oltre lo spazio di una stagione.


Effettivamente questo film non ha niente a che vedere con il Natale. Ci siamo deliberatamente voluti staccare dal cinema natalizio, realizzando una commedia brillante con qualche velleità in più delle altre. Vorrei precisare che non si tratta di una scelta altezzosa, ma fatta in tutta modestia. Avremmo anche potuto far uscire il film a ottobre, ma la post-produzione è stata molto lunga e non ce l'abbiamo fatta; e inoltre è difficile trovare spazi quando un film occupa più di 700 sale (Pinocchio, n.d.r.).

Lei ha detto che ultimamente ha visto molti lavori dei suoi colleghi. Ci saprebbe indicare alcuni film che l'hanno colpita maggiormente?


Su tutti L'imbalsamatore, del quale ho apprezzato soprattutto la regia e l'interpretazione del protagonista, il nano. Mi è piaciuto anche Respiro. E aggiungo un film sui giovani, Santa Maradona, e il film di Ligabue, che mi hanno permesso di vedere all'opera i due attori che sono con me, che ho voluto anche in Ma che colpa abbiamo noi. Ho apprezzato anche i meno recenti film di Moretti e Muccino. Mi sembra di poter dire che ci sia un buon fermento nelle nuove generazioni, e questo mi fa sperare che il 2003 sarà un buon anno per il cinema italiano. Il problema, semmai, sta nella promozione dei film italiani all'estero, che attualmente è coperta, con pochissime risorse economiche, soltanto dagli Istituti italiani di cultura, che stanno facendo un lavoro eccezionale. Ritengo che ci vorrebbe un impegno maggiore soprattutto da parte della gente di cinema. È necessario sostenere i film cosiddetti "di nicchia", parlarne il più possibile. Tutto parte, a mio avviso, dalla necessità di elevare i gusti del pubblico, educando i ragazzi delle scuole alla visione e alla discussione dei grandi classici del cinema italiano. Credo fermamente al cinema come materia di studio, perché il cinema può essere arte e cultura a livelli elevati, e non solo un prodotto commerciale.


Come giudica le sue esperienze televisive del passato? Ha ricevuto recentemente proposte per tornare a lavorare in televisione?


Ricordo con piacere le mie passate esperienze televisive, e devo dire che ho ricevuto, anche di recente, proposte sia da parte della RAI sia di Mediaset. Devo però confessare che non mi sento molto portato per la televisione, dove bisogna saper lavorare e muoversi a 360°, cosa che io non so fare, o forse la saprei anche fare, ma preferisco fare il lavoro che ho sempre fatto, continuando a realizzare film. Sono più interessato, qualora ci fosse la possibilità, a tornare a lavorare in teatro.

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