Maldoror, di Fabrice Du Welz

Du Welz affronta la narrazione true crime contemporanea ispirandosi alla tremenda vicenda del mostro di Marcinelle. Il suo eroe contrasta il Male con la fallibilità umana. VENEZIA81 Fuori Concorso

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L’asso dell’horror belga Fabrice Du Welz affronta la narrazione true crime tanto cara al contemporaneo, e racconta a modo suo la vicenda terribile del mostro di Marcinelle, il pedofilo che a metà anni ’90 rapiva e teneva murate vive in cantina le sue piccole vittime, e che ne fece morire due di fame e stenti, assassinando anche brutalmente uno dei suoi complici e la fidanzata di questi.
La vicenda reale a cui si ispira la storia del film è una discesa nell’abisso della malvagità umana, e Du Welz dipinge questa fattoria in campagna abitata da creature mostruose, lerce, animalesche, incarnazioni di un Male primitivo che si auto-fagocita, come accade con le angherie ad opera del ricco “sobillatore” del gruppetto di criminali, figura non meno unta, deforme, grottescamente ripugnante. A guardare i titoli di testa “strillati”, con i caratteri al neon, la musica che rimbomba, il montaggio di footage televisivo dell’epoca, uno potrebbe attendersi allora un Du Welz scatenato come i suoi titoli di culto più efferati, Calvaire o Vinyan: in realtà, il regista mantiene un rigore che appare necessario, trattandosi di una turpe vicenda ben impressa nella memoria del popolo belga, e si ritaglia pochi istanti in cui liberare la carica più genuinamente fantastica del suo cinema (si veda per un esempio il recente, bellissimo Adorazione), come la lotta notturna nel fango contro il maiale che va cibandosi di resti umani, o il confronto finale nel bosco.

Stavolta, il mondo sotterraneo è quello del Potere, dell’istituzione, di tutta una rete (ipotizzata all’epoca anche per il reale caso di cronaca a cui Maldoror si ispira) di coperture politiche, reti di pedofilia tra le alte sfere, depistaggi e insabbiamenti (l’episodio dell’evasione del “mostro” ricalca quanto avvenuto realmente) all’interno dei vari corpi di polizia belga in conflitto interno tra di loro: contro questa sorta di governo ombra colpevolmente disinteressato a risolvere davvero l’indagine si staglia l’eroe improbabile di questa storia, il gendarme Paul Chartier, a cui Anthony Bajon dona la propria espressione bonaria e uno sguardo che, da innocente, si fa via via sempre più torvo e allucinato.
L’ossessione di Chartier per riuscire a ritrovare e salvare due delle bambine rapite e nascoste nella fattoria lo porterà a immolare la sua intera esistenza alla missione, dimenticandosi di moglie e figlioletta appena nata – ma l’abituale discesa nella paranoia del detective classica del genere è qui costantemente sabotata dall’inesperienza di Paul, che inanella una serie di ingenuità e piccoli disastri che lo tengono lontano dalla figura dell’investigatore tormentato ma cazzuto, a cui questi prodotti ci hanno abituati.
Chartier si carica su di sé una vera e propria via crucis per cui sin dall’inizio viene pestato, investito, braccato, isolato e deriso, anche dalla famiglia siciliana della consorte – ma è chiaro che è su di lui, e sulla galleria di volti che lo circondano, dai suoceri italiani alla madre disastrata Béatrice Dalle, che Du Welz va ricercando un appiglio di umanità in questo mare di meschinità e di odio, che parte dalla malattia dei reietti e sale su su fino ai ributtanti giochi e legami di potere dei corridoi delle istituzioni.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
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