Marco, di Aitor Arregi e Jon Garaño

Un’opera in cui la decostruzione del protagonista avviene attraverso la progressiva costruzione del linguaggio cinematografico, questionando il rapporto tra realtà e finzione. VENEZIA 81. Orizzonti.

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Dove sta nella realtà di tutti i giorni il limite tra la verità e la finzione, tra la spontaneità e la costruzione artificiosa della propria immagine? Sembra essere questa domanda il motore di Marco, di Aitor Arregi e Jon Garaño, in concorso nella sezione Orizzonti dell’81ª Mostra del Cinema di Venezia. E sembra essere il motore anche del suo protagonista, Enric Marco (interpretato dall’ottimo Eduard Fernández), che per anni si è spacciato per un ex prigioniero del campo di sterminio nazista di Flossenbürg, salvo poi essere smascherato proprio quando, dopo diversi decenni, era ormai diventato un simbolo per il proprio paese.

Tratto da uno scandalo avvenuto in Spagna nel 2005, il film segue quindi Marco nel tentativo di ingraziarsi, attraverso un’identità artefatta, le persone che lo circondano, dapprima le più vicine, poi quelle che lo sono meno, fino a raggiungere una dimensione pubblica. E se la battaglia per cui si spende è in sé nobile – quella della divulgazione degli orrori dei campi di sterminio in un paese, che, avendo vissuto sotto regime fino al 1975, non ha sviluppato una profonda memoria storica – i motivi per cui lo fa sono legati a finalità esclusivamente egoistiche.

Se da un lato il lungometraggio soffre della mancanza di approfondimento di alcuni aspetti essenziali in una vicenda simile, come un rapporto con la famiglia (anch’essa ignara della verità) appena abbozzato, dall’altro risulta estremamente interessante il modo in cui il cinema, inteso come strumento per raccontare una storia, viene qui impiegato. Nel film sono infatti presenti immagini d’archivio e di finzione dapprima esplicitamente differenziate; poi anche le immagini di repertorio sono ricostruite, in una soluzione che ricorda non poco Jackie di Pablo Larraín; nel finale, quando è ormai chiaro quali siano gli aspetti reali e quali quelli inventati della vita di Marco, il film porta a compimento un arco opposto, in cui i due piani si integrano e si confondono, con sequenze in cui le immagini di repertorio e quelle di finzione sono montate una di fianco all’altra, indistinguibili. Se quindi nella vicenda del protagonista è fondamentale individuare dove stia la verità, fondamento totale della sua testimonianza, nel cinema si ha un’inversione di quest’idea, essendo al contrario una materia, quella filmica, che scaturisce esclusivamente da un’alterazione della realtà stessa.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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