Mi chiamano Cipolla, di Giansalvo Pinocchio e Riccardo Baiocco

Sembra un film sulla vita di un ragazzo rom, e invece racconta la verità, la menzogna, il disagio, il perdono, la comprensione, il senso del documentario, l’umanità di un abbraccio. Su openDDB

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«Il mio nome è Jasmin, ma mi chiamano Cipolla». Un soprannome apparentemente casuale, coniato chissà quando e chissà da chi forse per un gusto culinario, o forse per la forma della testa allungata dal codino con cui è solito legare i capelli, o forse più semplicemente perché una parola che «in Bosnia non sanno che cosa significa» ma che sembra suonare bene nella sua pronuncia dolce. Di certo è un soprannome che per Jasmin Ramovic, ragazzo rom ormai stabilmente instabile fra le periferie di Roma, finirà per rivelarsi ben più profondo e radicato del previsto, fino a segnare l’inaspettato e repentino cambio di rotta per un film che sembra un documentario sulla sua vita, e che in effetti lo è o che per lo meno voleva esserlo, ma che inevitabilmente finirà per diventare altro, forzando i suoi autori a ragionare sugli interstizi fra la verità e la menzogna, fra la vita e il racconto, fra la tragedia quotidiana e la falsa pista. Fino a ritrovarsi inevitabilmente a ridiscutere la fiducia, l’amicizia, l’etica, il senso stesso del filmare la realtà. Come se ‘Cipolla’, fin da subito, nient’altro fosse che un nomen omen rivelatore di un disagio, di un segreto, di un’intera vita passata a dissimulare la propria reale identità per paura dell’incomprensione della famiglia e di un’intera comunità probabilmente non in grado di accettarla. Una sorta di maschera (o se vogliamo di avatar, che sostanzialmente si ritrova a trasporre nella vita reale i comportamenti più tipici dell’era social) dietro cui nascondere se stesso, i propri imbarazzi e le proprie fragilità più profonde, riadattando ogni racconto del proprio quotidiano a quella sostanziale cornice sospesa fra la realtà e la finzione, a quel personaggio che proprio come le cipolle è inevitabilmente fatto a strati. Volontariamente scisso in livelli sempre meno superficiali (di realtà, di emotività, di autodifesa) che magari non sono subito visibili, ma da scoprire lentamente, uno dopo l’altro, senza avere paura quando necessario di ritrovarsi a piangere. Dalla sua prima volta di fronte alla macchina da presa, come un Cicerone un po’ in imbarazzo fra le roulotte e i camper, fino a una confessione a cuore aperto da lasciare sospesa nei suoi jump-cut fra il visibile e l’invisibile, fra l’esplicito e l’implicito, fra il detto e il non detto, o che per lo meno non è necessario includere nel montaggio perché evidente già da ben prima: basta avere il cuore e la sensibilità per capirlo, e il resto lo fanno il calore catartico di un abbraccio, l’intesa, il pieno ritrovarsi, l’affetto mai venuto meno. L’evidenza umana, sottaciuta ma non troppo (chi, se non gli innamorati, passa le giornate in un balletto di telefonate a cui rispondere o non rispondere?), dei motivi per cui era in qualche modo necessario mentire a due registi diventati oramai sempre più profondamente amici, tentando di mostrare e di veicolare attraverso le loro videocamere un’immagine-altra di sé, uno strato (personale, familiare, passionale, identitario) superiore e “pubblico” della Cipolla, che il protagonista non poteva immaginare come alla lunga sarebbe stato destinato, al pari degli altri, a cadere fino a scoprirne il cuore.

Del resto non c’è mai alcun intento di giudicare, in Mi chiamano Cipolla. Solo di capire, e nel frattempo affezionarsi. Capire la vita da ‘zingaro’, capire la società e la cultura rom, capire le difficoltà di comunicazione fra barriere linguistiche, analfabetismo (del protagonista) e storture burocratiche (dell’Italia). Capire come si possa andare avanti senza aiuti e senza diritti, rifiutati e scacciati pure dalla propria numerosissima famiglia. Perfino nel momento-cardine in cui Giansalvo Pinocchio e Riccardo Baiocco, dopo quattro anni di riprese e di domande rigorosamente fuori campo – ma soprattutto dopo essersi resi conto che almeno parte dei racconti del loro protagonista, ascoltati e mai messi in discussione, erano aperte bugie – sentono la necessità di entrare in prima persona nel quadro del loro film per mettere Jasmin/Cipolla di fronte alle sue incongruenze, il loro unico punto non è in alcun modo quello di accusarlo o di offenderlo, ma semplicemente di capire i motivi delle sue menzogne, e ancora una volta di tendergli umanamente una mano, di riavvicinarsi, di ricominciare a capirsi. Di dissipare, per lo meno con loro, quella residua vergogna per le sue condizioni sociali ed economiche che lo ha portato a mentire, a omettere, a dissimulare, a inventare di sana pianta storie e avventure. L’unico modo per riprendere in mano le redini non solo di un documentario ormai da tempo consegnato al flusso in un italiano un po’ incerto delle sue parole vere e false lungo lo scorrere del tempo, al suo raccontarsi per ciò che gli accade ma al contempo mettersi in scena per ciò che non è, ma soprattutto di un rapporto umano e di reciproca fiducia, di un’amicizia, di un reale e percepibile volersi bene, e così ritornare alla purezza della verità, perseguita dai co-registi tanto a lungo e tanto apertamente da rendersi conto quasi all’improvviso di averla smarrita. Una verità il più possibile assoluta che parte dalla scelta, di per sé radicale, di consegnare direttamente ai bambini rom che giocano nel campo una GoPro, e che prosegue con i filmati di famiglia girati dal cellulare dello stesso Jasmin da aggiungere a una varietà di materiali eterogenei per stile, pasta, formato e aspect ratio che, legati nel montaggio finale, ritroveranno una vera e propria parabola al contempo narrativa, antropologica, psicologica e teorica. Ramificazioni, inaspettate dagli stessi autori, di un film che come il loro precedente Almost Dead (Work in Progress), co-diretto nel 2018, sarebbe inizialmente dovuto essere un corto, ma progressivamente cresciuto fino a poco meno di settanta minuti in cui seguire fase dopo fase il protagonista dal campo nomadi abusivo fino alla casa popolare assegnata alla sua famiglia, poi nel suo doversi in qualche modo di nuovo arrangiare fra i cartoni sui prati e qualche divano (o forse giaciglio d’amore segreto…) in giro per la città. Salvo infine rendersi conto di averlo pedinato fino a deragliare dalla strada prefissata, ma anche di aver trovato un film d’esordio estremamente più interessante e stratificato rispetto alle iniziali ambizioni. Un film che gioca apertamente con il campo e con il fuori campo, con l’evidenza e con l’allusione, con le parole e con le ellissi, in cui l’instabilità abitativa diventa metafora di un’instabilità socio-esistenziale e in cui la ricerca di verità diventa (in)consapevolmente racconto e costruzione di un personaggio. Ma soprattutto un film in cui tutto non potrà che virare sul rapporto personale di amicizia e fiducia che si crea fra gli autori e i soggetti dei documentari. Un rapporto in cui magari a un certo punto ci si può sentire traditi, incompresi, ingannati, ma nel quale si è creato ormai un legame troppo forte per essere reciso o anche solo messo in discussione. Ci si può solo ritrovare, il rospo ormai sputato e ancora più vicini, ancora più uniti, ancora una volta commossi.

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