Miyazaki l’esprit de la nature, di Léo Favier

Un documentario sicuramente sincero, che seppur evochi con precisione il biografismo delle narrazioni miyazakiane, rimane schiacciato da un approccio troppo didascalico. VENEZIA81. Venezia Classici

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Ogni documentario che si propone di visualizzare in immagini il percorso cinematografico di Hayao Miyazaki, non può esimersi dal seguire una precisa formula, che si configura alla stregua di un vero e proprio paradigma: ovvero intrecciare l’afflato artistico del cineasta, i temi e l’espressività che da sempre ne contraddistinguono la poetica, con il vissuto del maestro. Perché nel cinema del celebre animatore, l’interconnessione tra Storia (quella con la S maiuscola) e biografia, tra evoluzioni espressive e fenomeni industriali del mondo dell’animazione nipponica, è un dogma: a cui i suoi appassionati, così come gli stessi addetti ai lavori, devono necessariamente guardare se vogliono scandagliare le tematiche e le finalità (narrative, politiche, comunicative) su cui si fonda la filmografia dell’autore. Un assunto che proprio il documentario Miyazaki l’esprit de la nature sembra, per l’ennesima volta, ribadire.

Non è un caso che il giovane documentarista francese Léo Favier, servendosi della collaborazione dello Studio Ghibli, abbia ramificato tutto il racconto di Miyazaki l’esprit de la nature a partire proprio dalla sovrapposizione della biografia miyazakiana con i contenuti dei suoi dodici lungometraggi. Nel ripercorrere, in maniera cronologica e lineare, la vita e i lavori del maestro, il regista di fatto punta sin da subito l’attenzione sulla necessità di tracciare un fil rouge che mostri il legame tra i micro-eventi dell’esistenza quotidiana di Miyazaki e l’espressione artistica del leggendario animatore, collegando idealmente il cinema – e quindi il processo creativo che porta il maestro giapponese a dare forma, di volta in volta, alle sue opere – alla vita dell’autore: quasi come se non esistesse soluzione di continuità tra l’universo interiore dell’iconico filmmaker e le immagini dei suoi film, tale da condurre il padre di Totoro a riversare tutti i suoi sogni, idee o idiosincrasie all’interno dei sinestetici mondi della sua filmografia/immaginazione.

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E finché Miyazaki l’esprit de la nature cerca di evocare questa connessione biografica per mezzo della ricostruzione, tramite materiali d’archivio ed interviste ad interlocutori vari, della vita del maestro, il documentario trova il suo passo, riuscendo nell’obiettivo di veicolare, soprattutto ai neofiti e al pubblico generalista, dei retroscena interessanti (anche se mai veramente inediti) sull’approccio artistico del regista e sul biografismo che trapela dalle parabole ecopacifiste che il cineasta mette in scena sin dagli albori della sua carriera. Il problema di fondo, semmai, sta nell’approssimazione con cui il documentario tratta il Miyazaki-uomo, di cui paradossalmente non si percepisce traccia. Quasi come se fosse stato sacrificato sull’altare di un didascalismo che non permette al racconto di andare oltre la superficie della materia narrata.

2.8
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