MOVIEGAMES – Cinema e videogiochi?
Cinema e videogiochi possono essere media compatibili? Proviamo a rispondere prendendo ad esempio l'avventura appena pubblicata: "Keepsake: Il Mistero di Dragonvale".
Jesper Juul, uno dei più illustri esponenti dei "game studies", autore del libro Half-Real, Video Games between Real Rules and Fictional Worlds (Cambridge [Ma], The MIT Press, 2005), dedica il saggio Games Telling Stories? a dimostrare che i videogiochi sono una forma espressiva non-narrativa. Una delle ragioni che, secondo questo autore, dimostrano la tesi è che: «Games are not part of the narrative media ecology formed by movies, novels, and theatre» ovvero i giochi non fanno parte dell'ecologia di media narrativi quali film, romanzi e opere teatrali. Sinteticamente il motivo di tale affermazione è così riassunto nella conclusione del saggio: «Games and stories actually do not translate to each other in the way that novels and movies do» ovvero: giochi e racconti non si traducono effettivamente l'uno nell'altro come accade per romanzi e film. Steven Poole (in un altro testo citatissimo dagli studiosi di videogiochi, Trigger Happy, Videogemes and the Entertainment Revolution, New York, Arcade Publishing, 2000), parlando della presunta convergenza tra cinema e videogiochi "strillata" nei settimanali ad ampia diffusione rincara la dose affermando che «Plot and character are things videogames find very difficult to deal with» ovvero trama e personaggi (identificati come elementi essenziali delle opere cinematografiche) sono cose estremamente difficili da gestire da parte dei videogiochi.Davvero? Videogiochi e narrazione, in particolare narrazione cinematografica, sono davvero così distanti e naturalmente differenti? Forse c'è, a monte, un problema d'approccio. Ovvero nessuno di noi considererebbe "opera cinematografica" la telecronaca di una partita di calcio, anche se trasmessa su un maxi-schermo paragonabile a quelli delle sale cinematografiche. Mentre un videogioco di calcio – così come uno di corse automobilistiche o uno di sport invernali (attualmente di moda grazie alle olimpiadi) – è considerato videogioco esattamente alla stessa stregua degli sparatutto in prima persona, degli action-adventure, dei puzzle-game, delle avventure grafiche, eccetera. Basta andare a osservare i videogiochi presentati nella bibliografia del saggio di Juul: abbiamo 14 titoli di cui 7 (la metà!) anteriori agli anni '90. Dei rimanenti 7 abbiamo: 2 giochi di ruolo, 1 sparatutto in prima persona, 1 action-adventure, 2 giochi di corse, 1 picchiaduro. Né nei 7 videogiochi "antichi" citati, né nei 7 recenti c'è un'avventura grafica. Cosa significa questo? Semplicemente che Juul (e la maggior parte degli esponenti della corrente dei "game studies", vedere all'uopo il sito in italiano ad essi dedicato: Videoludica) bara. Bara magari per un fine buono, ovvero per far sì che lo studio dei videogiochi diventi una materia accademica a sé, non ricompresa all'interno della semiotica. Ma comunque bara. Perché prende ad archetipo di videogiochi anti-narrativi giochi che tutti noi avremmo difficoltà a ricondurre pienamente alla categoria del narrativo ma tace colpevolmente su giochi – le avventure grafiche, appunto – che non da oggi (dato che la loro origine risale alle avventure testuali) sono quintessenzialmente narrative. Tanto è vero che se nessuna avventura grafica è mai diventata film (ma qui si tratta non di problemi di "traduzione", di "trama" o di "personaggi" quanto di appeal a livello di fatturato), almeno due film sono diventati straordinarie avventure grafiche. E mi sto riferendo a Indiana Jones and the Fate of Atlantis e a Blade Runner. In realtà nessuno dei due titoli è la "trasposizione" di un'opera cinematografica. Al contrario entrambi sono "spin-off" delle rispettive opere di riferimento riuscendo però a cogliere completamente i motivi che le hanno fatte grandi e peculiari (detto per inciso, Fate of Atlantis come avventura grafica è riuscita a incarnare a livello videoludico la serie di Indiana Jones mentre hanno fallito i due più recenti titoli con impostazione – un caso? – action-adventure). Senza con questo voler sostenere che esclusivamente le avventure grafiche riescano ed essere narrativamente efficaci – molto sarebbe da dire, e molto del resto è già stato detto a proposito in questa stessa rubrica – è evidente come negare alle avventure grafiche una funzione narrativa sia equivalente a negare la loro stessa ragione d'esistere. E del resto sarebbe come sostenere che i programmi televisivi non siano narrativi solo perché alcuni di essi non lo sono. Se possiamo assennatamente sostenere che quiz o reality non abbiano nulla o ben poco di narrativo ciò non esclude che tale categoria possa fruttuosamente essere applicata ad altri programmi ugualmente essenziali all'economia della televisione – film, serial, cartoni, ecc. -.
Un esempio chiaro ed evidente lo prendiamo dall'avventura grafica appena uscita che – seguendo la politica dei prezzi aggressivi del publisher Power-Up – viene venduta in negozi ed edicole al prezzo di 19,90 euro (circa la metà rispetto al prezzo di lancio "normale" di un gioco per Pc): Keepsake: Il mistero di Dragonvale (Lighthouse/Wicked/Power-Up, DVD per Pc, tradotto completamente e bene in italiano). In esso dobbiamo guidare la giovane Lydia nell'esplorazione dell'Accademia di magia di Dragonvale. Soprattutto dobbiamo aiutarla a risolvere il mistero che ha fatto sì che al suo arrivo l'Accademia risultasse completamente deserta, tutti i suoi macchinari spenti e soprattutto la sua amica d'infanzia che doveva attenderla sparita. Certo: come in ogni avventura grafica il cuore del gioco in quanto tale è costituito da puzzle più o meno logico-matematici che il giocatore deve risolvere. E tuttavia, nella convinzione che i puzzle stessi non siano il motore vero del gioco, l'essenza che spinge il giocatore a portare a compimento il gioco stesso, ma che piuttosto tale motore, tale essenza vadano identificati nella storia raccontata, i programmatori hanno deciso di includere nel gioco stesso una sorta di help in linea che aiuta il giocatore con indizi per la risoluzione degli enigmi che gli possono sembrare troppo ostici e da ultimo può addirittura risolverglieli in vece sua. Arriviamo al paradosso che il giocatore ha la possibilità di evitare del tutto di spremere le proprie meningi e lasciare al gioco la risoluzione di tutti gli enigmi. In questo caso estremo cosa gli resta? Gli resta comunque la storia. Di fatto, supponendo un giocatore pigro in massimo grado che voglia evitare del tutto gli enigmi, Keepsake si trasforma in una sorta di film in cui lo spettatore non ha altro compito che guidare i passi del protagonista. Un compito dunque unicamente esplorativo, mentre il gioco s'incarica automaticamente di far evolvere la trama mediante la risoluzione degli enigmi. Il gioco verrebbe così snaturato? No: del resto sono stati gli stessi programmatori a prevedere tale possibilità e se da un lato l'interattività viene ridotta dall'altro lato non si ha un salto di qualità dato che comunque la struttura standard dell'avventura grafica è di tipo lineare (non prevede finali alternativi o una crescita del personaggio diversa a seconda delle scelte operate dal giocatore) e che la ricerca delle soluzioni per questo tipo di giochi è pratica talmente comune che ormai la maggior parte dei siti commerciali dedicati ai videogiochi le offre a pagamento.