“Nel cinema si è sempre rubato”- Incontro con Paul Schrader a Torino

Di passaggio a Torino per ritirare il premio Stella Della Mole, abbiamo incontrato Paul Schrader e abbiamo discusso con lui di adattamenti, Barbenheimer e dello stato di salute del cinema oggi

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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«Tutto ha avuto inizio quando vidi Diario di un ladro e mi resi conto che anch’io potevo scrivere sceneggiature che unissero il profano della mia professione con il sacro della mia formazione religiosa». Paul Schrader così ha riassunto la sua carriera e il suo stile mentre mercoledì 22 maggio ritirava il Premio Stella della Mole presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino alla presenza di pubblico e stampa. Il direttore Domenico De Gaetano ne parla come di «un maestro che con il suo contributo al cinema internazionale ha non solo reso possibile la rivoluzione rappresentata dalla New Hollywood ma dimostrato che la coerenza e la determinazione sono presupposti della qualità». Qualche minuto dopo i due si sono seduti in compagnia del curatore degli archivi del Museo Stefano Boni per la Masterclass del regista statunitense. Di seguito l’intervista esclusiva che abbiamo raccolto la mattina dello stesso giorno presso l’hotel torinese che ospitava Paul Schrader.

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Come spiega le citazioni da vecchi film in alcune sue sequenze?

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Per la mia generazione esiste un prima-Godard e un dopo-Godard. Ecco perché in American Gigolò troviamo le mani che si rincorrono sul letto di Una donna sposata. Ma è evidente anche il debito che molti miei finali, si veda sempre quello ma anche Lo spacciatore, hanno con Bresson. Diciamo che una volta era più facile copiare qualcosa da un altro film perché non c’erano vhs o dvd e nessuno se ne accorgeva [ride], ma in fondo nel cinema si è sempre rubato dai film del passato.

Cosa ne pensa del remake seriale di American Gigolò?

Penso che le serie televisive possano essere valide ma quando me l’avevano chiesto alcuni anni fa dissi che era un’idea tremenda, perché quel film era stato fatto in un luogo preciso e in un momento preciso che ormai non esistevano più. Un anno dopo si sono ripresentati e hanno rifatto l’offerta alla quale ho risposto di nuovo negativamente. Al ché mi hanno detto “Noi abbiamo i diritti e possiamo farlo senza il tuo permesso oppure possiamo usare il tuo nome e darti 50.000 dollari”. Ci ho pensato un attimo e ho risposto “Al diavolo, prendo i 50.000 dollari”, ma poi non sono stato coinvolto…

A dieci anni di distanza da The Canyons, che ricordo ha di quella esperienza?

The Canyons è un progetto unico: il mio primo e solo film “fai-da-te”. Ciò significa che Bret Easton Ellis, un mio amico ed io mettemmo in piedi la produzione. Abbiamo chiamato chi volevamo, ovvero Lindsay e il pornodivo James Deen. Quando lo presentammo venne distrutto dalla critica, ma col passare del tempo è stato rivalutato tanto da uscire in blu-ray. Fu la risposta alla domanda “Si può fare cinema in questo modo?”: Sì. Ma non ripeterei l’esperienza, se potessi scegliere.

Qual’è stato l’impatto del digitale sulle procedure di realizzazione e distribuzione?

Dico un’ovvietà quando affermo che il digitale ha facilitato la realizzazione dei film e ha anche ridotto molto i tempi rispetto a quando ho cominciato io girando in pellicola. Lo stesso film che una volta richiedeva 45 giorni di riprese, oggi lo porti a casa in 20 giornate. Si sono ridotte le spese ed è tutto più veloce. Inoltre, chiunque potrebbe fare un film con uno smartphone per poi montarlo e persino distribuirlo avendo a disposizione semplicemente un laptop. Guadagnarci, però, è difficile. Da una parte c’è la grande libertà della produzione digitale con le nuove tecnologie, che ad esempio ha permesso la diffusione di film a tematica gay e lesbo o in generale il racconto delle minoranze, ma dall’altra non si può ignorare come l’enorme quantità di materiale prodotto in questa maniera renda difficile farsi notare nell’ambiente, in mezzo a tanti altri talenti. Quando ho cominciato io c’erano forse 4000 sceneggiatori, adesso se ne contano 40.000. Ma è soprattutto il pubblico ad essere cambiato nelle sue abitudini. Un tempo, quando usciva un film, se ne parlava a lungo. Oggi, se non consideriamo casi come Barbie e Oppenheimer, manca questo dibattito pubblico. Una volta il cinema era popolare come il calcio, ora è elitario alla stregua di altre arti come il jazz e il teatro.

Cosa pensa di Barbie e del dibattito che e è scaturito? E di un possibile sequel?

A me è piaciuto! Ma non ne farei un secondo perché c’era una sola storia lì: come fare uscire Barbie da Barbieland. Un’ottima idea per un film! L’hanno trovata, l’hanno fatto e l’hanno fatto funzionare. Dovrebbero essere soddisfatti. In particolare il finale, credo sia molto riuscito. Ma finisce qui.

Paul Schrader

È vero che tempo fa voleva fare un film su Frank Sinatra con Kevin Spacey? Se la sentirebbe di sfidare Scorsese realizzando questo progetto nonostante l’annuncio della sua versione?

Prima di tutto, il mio film non è stato realizzato e dubito che Martin riuscirà a realizzare il suo. Dico questo perché lui ci ha provato una prima volta trent’anni fa ed è stato bloccato da Tina Sinatra, titolare dei diritti delle musiche. Quella prima volta Martin presentò la sceneggiatura che aveva scritto e Tina la rigettò perché non abbastanza gentile con la memoria del padre. Anch’io ho una sceneggiatura, che però non è stata letta da Tina. In più, Kevin ha avuto i suoi problemi quindi non ci sono stati sviluppi. So che Martin e DiCaprio stanno cercando di ottenere qualcosa da Tina. Staremo a vedere… A me capitò una cosa simile con Mishima, quando la vedova mi impedì di utilizzare un libro. Gli altri testi erano però accessibili e così sono riuscito a portare a termine il progetto. Ma qui si parla delle canzoni di Sinatra, senza le quali non può esserci un film su Sinatra.

Considerando ciò che avete fatto all’epoca della New Hollywood, quale pensa possa essere la prossima rivoluzione nel cinema?

L’evoluzione è continua… Nella storia del cinema ogni generazione ha fatto la sua. Prima di noi c’erano quelli come Sidney Pollack e William Friedkin che venivano dalla televisione in diretta, poi è stato il turno degli studenti di cinema come me, più tardi quelli che hanno cominciato con gli spot pubblicitari, e poi con i videoclip musicali, poi con i videogames. È un susseguirsi di rivoluzioni. Oggi ci saranno sicuramente nuovi autori con nuovi strumenti ed è giusto che facciano la loro parte. Penso a ciò che è possibile fare con l’Intelligenza Artificiale. Fino a che punto diventà popolare il cinema sintetico? Noi non lo vedremo, ma i vostri figli probabilmente sì. Si cominciano già a vedere film con avatar… Mi è capitato di vedere un cortometraggio interamente realizzato con algoritmi. Incredibile come in pochi secondi sia possibile scansionare tutte le informazioni utili a riprodurre digitalmente un gruppo di persone sedute intorno a un tavolo nella hall di un albergo. Per fortuna io, baby boomer, non ci sarò per vedere fin dove potrà spingersi questa nuova tecnologia.

Nel suo ultimo film presentato a Cannes, Oh Canada, mette in scena la morte. C’è un limite che un regista non può o non dovrebbe superare quando affronta determinate tematiche?

Il limite riguarda la dimensione del pubblico a cui ti vuoi rivolgere. A Cannes c’era anche Frederick Wiseman con un film di 13 ore in cui si vedono solamente persone che muoiono e che non ha visto quasi nessuno perché molto duro. Quindi se si vuole parlare di morte, come di altre questioni delicate, bisogna trovare il modo per affrontare il soggetto così da non respingere il pubblico. Dipende da come scrivi la storia: se parli di demenza, ad esempio, è molto difficile coinvolgere lo spettatore nel racconto di un personaggio che non riesce a esprimere concetti di senso compiuto, e questo può essere molto problematico. Nel mio caso è diverso perché si parla di qualcuno vicino alla fine ma ancora abbastanza lucido da poter raccontare in modo sensato la propria vita. Ovviamente mi sono preso delle licenze perché gli ultimi giorni di una persona che prende antidolorifici non sarebbero così nella realtà. Bisogna rinunciare al realismo per il bene della storia.

C’è qualche tema che vorrebbe affrontare in futuro e di cui non ha ancora scritto?

Premetto che in genere ciò che cerco di fare è raccontare storie ancorate al presente e non ambientate nel passato perché è mio proposito capire cosa sta succedendo nella cultura e nella società. Detto questo, nell’ultimo anno e mezzo ho scritto quattro sceneggiature: due legate al tema dell’empowerment femminile, una su tre fratelli afroamericani che cercano di uccidersi a vicenda e una, che è quella che realizzerò, su due fratelli di mezz’età che si innamorano della stessa ragazza. Mi allontano un po’ dal mio solito campo d’azione, ovvero storie trainate dal personaggio, per tentare la strada del film basato sulla trama. S’intitola Non Compos Mentis, ovvero “fuori di testa”.

Ha già visitato Torino? La sceglierebbe come location di un suo film?

Non l’ho ancora visitata ma l’Italia è tutto un bellissimo set e ho già fatto due film in questo Paese. Adesso ho in programma di fare un film in una grande città metropolitana e se Dallas, ad esempio, mi darà i soldi allora lo girerò a Dallas. Ma se Dallas mi dirà “Ti daremo i soldi lo stesso, non devi per forza girarlo qui” allora verrò a Torino [ride]. Se una città mette i soldi, un regista può fare tutto.

 

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