Pepe, di Nelson Carlos De Los Santos Arias

La voce dell’ippopotamo Pepe rievoca le vicende di una storia reale. Ma è un racconto che sfuma nella leggenda. Oltre che una rigorosa prova di economia della visione. BERLINALE74. Concorso

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Agli inizi degli anni ’80, un gruppo di ippopotami fu trasportato clandestinamente dall’Africa in Colombia, per conto di Pablo Escobar. Il famigerato narcotrafficante, appassionato di animali esotici, aveva creato un vero e proprio zoo nella sua tenuta, l’Hacienda Nápoles. Dopo la sua uccisione, nel 1993, gli ippopotami riuscirono a diffondersi facilmente nel bacino del fiume Magdalena, creando una nutrita colonia, che ha finito per stravolgere l’ecosistema dei luoghi. Uno degli esemplari originari, denominato Pepe, dopo aver perso lo scontro con Pablo per il primato sul branco, fu il primo ad aggirarsi liberamente lungo il corso del fiume, seminando il panico tra gli abitanti della zona. Per questo fu abbattuto dalle forze dell’ordine, unico caso di ippopotamo ucciso in Sud America.

Insomma, c’è una storia vera alla base del nuovo film di Nelson Carlos De Los Santos Arias, regista domenicano che si era fatto conoscere con Cocote, presentato a Locarno nel 2017. Ma la storia, nel momento in cui si fa narrazione, sfuma i suoi contorni per lasciar posto alla leggenda. Ed è in questa dimensione misteriosa che si muove De Los Santos Arias. A più livelli. Innanzitutto affida le coordinate della storia al racconto in prima persona di Pepe. O meglio, del suo fantasma. Una voce metallica, profonda, che parla la lingua della sua terra d’origine e le tragiche vicende della deportazione forzata, della cattività, dell’esilio dal branco e della morte violenta. La storia del colonialismo, insomma. Ma è un’evocazione che sembra aver smarrito la nettezza del dato reale, confuso i legami della memoria nel viaggio tra i segreti del tempo. Quindi la versione di Pepe dà segni di smarrimento, è problematica, non lineare, spalanca questioni senza risposta sul senso degli avvenimenti, sull’incomprensibilità del destino. E le immagini provano a dar forma a questo mistero. Trascolorano nel bianco, si perdono nella contemplazione del paesaggio, assumono punti di vista impersonali, in quelle inquadrature dall’alto che appartengono, forse, a uno sguardo alieno.

A questa voce-spirito, De Los Santos Arias aggiunge altre traiettorie. Brevi scorci della quotidianità di una comunità intorno al fiume Magdalena e immagini di repertorio che sembrano suggerire tracce di documentario. Ma sono solo brevi istanti, depistaggi, contraddetti ad esempio dal cartone animato sull’ippopotamo Pepe, reinventato da zero, libero esercizio di immaginazione che finisce per invadere il campo. Persino quando la narrazione si fa più lineare nella seconda parte, rimane la sensazione di qualcosa di indefinito. I deliri del pescatore Candelario ci accompagnano nelle vicende della caccia e dell’uccisione di Pepe. Ma è come se fossimo trascinati tra le nebbie e le oscurità di un racconto fantastico, una specie di Incident at Loch Ness, dove, nell’attesa dell’apparizione del mostro, l’atmosfera dissolve i contorni del reale.

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Ecco, lo sguardo politico di De Los Santos Arias sembra animato da una specie di ironia herzoghiana, si volge al dramma con l’enigma di un sorriso. Si perde liberamente tra le forme, i formati e i toni. Ma al tempo stesso, dà prova di una rigorosa economia della visione, che è l’aspetto più interessante del film. Sceglie di stare per lo più sui campi lunghi, per mantenere la giusta distanza e sfocare i dettagli. Nei dialoghi, sembra quasi negare sistematicamente la possibilità di un controcampo. E dove non può arrivare con l’immagine, si affida al sonoro, come nelle scene in cui l’ippopotamo aggredisce le barche dei pescatori. L’essenziale delle cose rimane così nel fuoricampo, nascosto sotto il pelo dell’acqua. Passa sotto silenzio. Come una domanda senza risposta.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)
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