PerSo 2024 – Incontro con Leonardo Di Costanzo

In occasione di una retrospettiva a lui dedicatagli dal festival, il regista ha incontrato il pubblico, dialogando con Giovanni Piperno sulla sua carriera, sui suoi film e sul suo metodo di lavoro

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La 10ª edizione del PerSo – Perugia Social Film Festival ha dedicato una retrospettiva al cinema di Leonardo Di Costanzo, proiettando alcuni dei suoi titoli più noti, come i documentari A scuola (2003) e Odessa  (2006) e il suo secondo lungometraggio di finzione L’intrusa (2017). A margine della rassegna si è poi svolto un incontro con lo stesso cineasta, che ha dialogato con il regista Giovanni Piperno, direttore artistico del festival insieme a Luca Ferretti, a proposito dei suoi film, del suo metodo di lavoro e della sua carriera, ripercorrendola in alcuni dei suoi punti cruciali.

L’inizio della conversazione ha visto Di Costanzo raccontare il proprio passaggio dal cinema documentario al cinema di finzione, individuando come svolta la lavorazione di Cadenza d’Inganno (2011). “Il protagonista, Antonio, viveva in un quartiere molto difficile, in quell’età in cui questi bambini possono cadere da una parte o dall’altra, fanno degli incontri e in base a quelli possono diventare imprenditori o operai, possono prendere strade pericolose per se stessi o per gli altri. Parliamo di una cosa molto intima, sulla quale la realtà ne sa più di me. Volevo fare un film senza trama, perché già dargli una trama significava imporgli un percorso. Volevo poi filmare Antonio nella sua quotidianità e l’accordo era che noi ci vedessimo e fosse lui a decidere il da farsi. Ovviamente questo ragazzo ad un certo punto si è stancato e non si è più presentato. I bambini si mettono nel ruolo che loro immaginano tu voglia da loro e questa cosa li tranquillizza, loro lo fanno tranquillamente. Quando uno li lascia liberi, si destabilizzano perché si sentono in pericolo. Mi ha chiamato otto anni dopo, per il suo matrimonio. Quindi aveva deciso di non continuare con le riprese, ma ha aspettato che arrivasse un momento che lui pensava fosse adatto al film” ha quindi ricordato Leonardo Di Costanzo, pensando quindi proprio al personaggio di Antonio come colui che gli ha fatto comprendere più di tutti quale fosse il suo ruolo rispetto alla storia che raccontava. “Quando facciamo documentari in qualche modo ci impadroniamo della vita dei personaggi e ne facciamo quello che vogliamo noi, lo mettiamo a servizio della drammaturgia, perché ad un certo punto è proprio la drammaturgia a prendere il sopravvento. Il film deve essere accattivante, non può essere noioso, quindi prendiamo solo le cose che ci fanno comodo. Quello di Antonio a me è sembrato un grande gesto di ribellione e quindi di affermazione. Ha detto: ‘Decido io qual è la mia vita, o ti sta bene o non ti sta bene’. Da quel momento sono entrato in crisi col documentario, perché significa andare a casa delle persone e raccontare la loro vita, impadronirsene, magari cercando di prestare tutte le attenzioni del caso, però poi di fatto uno si appropria della vita delle persone”.

Leonardo Di Costanzo

Nel 2012 è quindi arrivato il primo lungometraggio di finzione, L’intervallo: “Sentivo che ormai avevo troppa voglia di raccontare l’interiorità delle persone e dei personaggi, e quindi avevo difficoltà ad entrare e affrontare l’interiorità di persone vere. Però anche quando faccio film di finzione, io continuo a lavorare come in un documentario, perché osservo e studio la realtà. Anzi, sono assolutamente convinto che il più grande sceneggiatore sia la realtà, ed io devo solo riuscire, con la finzione, a essere più vicino a quello che succede nella realtà. Questa fiducia nella realtà come produttore di storie in me esiste ancora. Noi abbiamo bisogno di dare un senso alla vita con un racconto, quindi io credo che quando narri un personaggio, lui sia contento che noi facciamo drammaturgia. Gli dai in qualche modo un senso”.

A destare curiosità è quindi l’ultimo momento di questa trasformazione, con Ariaferma (2017) che vede coinvolti sullo schermo sia attori professionisti tra i più noti del panorama italiano, che attori non professionisti. “Io ho lavorato con grandi attori come Servillo, Ferracane e Orlando. Mentre all’attore professionista, sei tu che devi dire cosa fare esattamente, l’attore non professionista è una continua invenzione, perché è la sua vita che sta mettendo in scena e lui la conosce meglio di te. Filmare il carcere poi è stato molto complicato, soprattutto nel creare un tono che fosse adatto alla storia da raccontare. Bisognava costruire un mondo che fosse un po’ romanzato, quasi una favola. E quindi la favola ha bisogno di artificio. E l’artificio è quello degli attori, quelli professionisti, con però anche altri interpreti come Salvatore Striano, che ha un passato da detenuto. Tra Toni Servillo e la guardia c’è un percorso, tra Striano e il detenuto, non c’è lo stesso percorso; lui lo è stato e quindi c’è una densità recitativa evidente. Però il grande problema in questo caso è che questi due modi di stare in scena sono così diversi che è come se tu usassi contemporaneamente il pastello e l’olio per fare un quadro. Quindi ci ho lavorato tanto, ho detto a Toni e a Silvio che avrebbero dovuto studiare per trovare una via di mezzo tra il loro modo di recitare e quello degli altri”. A proposito dello stesso Ariaferma, per cui ha vinto il David per la miglior sceneggiatura originale nel 2022, Di Costanzo ha poi raccontato un aneddoto che riguarda proprio i due interpreti protagonisti: “Loro in realtà quando gli ho proposto il film, avevano i ruoli invertiti rispetto a quelli che poi hanno interpretato. Toni Servillo era il detenuto, mentre Silvio Orlando la guardia. Però così mi sembrava troppo facile, già visto fin troppo durante la loro carriera. Li ho scambiati ed inizialmente non volevano. Quando Toni ha accettato, Silvio è stato costretto a quel punto a fare altrettanto. Però aveva più dubbi. Diceva: ‘Ma io, in un film peraltro con così poco dialogo, come faccio a sembrare minaccioso? Io sono tranquillo, pacato, al massimo posso fare il depresso’. Ma io gli ho detto di aver visto in lui una certa perfidia”.

L’attenzione si è poi spostata sul percorso di formazione del regista, nato a Ischia nel 1958. “Da piccolo non andavo parecchie volte al cinema. Ad Ischia al massimo potevo vedere Maciste, o comunque quella roba lì. C’era un cineforum, ma si svolgeva sporadicamente. E poi le sale erano poche e nessuno avrebbe rinunciato alla propria programmazione per fare cineforum. Quindi lo tenevano in un hotel che d’inverno era chiuso e il cui proprietario era un cinefilo. L’idea di lavorare nel cinema è arrivata molto dopo. Non mi concedevo neanche il sogno. Io avevo studiato per insegnare francese nelle scuole e ho iniziato a lavorare come professore, ma ho capito che proprio non ero portato. Sapevo bene il francese, però avevo la sensazione che avrei fatto dei guai, perché non sapevo come catturare l’interesse dei ragazzi. Poi per fortuna una volta a Napoli ho incontrato una giovane regista francese che doveva fare un film in costume, un cortometraggio tratto da una novella di Balzac, che raccontava la storia di uno scultore che nel 1700 veniva a fare il Grand Tour e si innamora di una cantante dell’opera, senza sapere che si trattava di un uomo evirato. Lei voleva che questo cantante fosse interpretato da un travestito. E io l’ho accompagnata in giro per la città per trovare qualcuno adatto. Io poi ho lavorato a quel film, come attore, come assistente alla regia e come assistente al montaggio, e ho notato che avevo una certa facilità rispetto al linguaggio cinematografico. Allora, pur avendo già compiuto 28 anni, mi sono iscritto ad una scuola di cinema a Parigi, l’Ateliers Varan, che doveva durare tre mesi e poi è durata il doppio. Lì si parlava poco, ma si faceva molto. Ti mettevano la macchina da presa in mano e tu dovevi uscire a girare. Alla fine di quel percorso ho prodotto un corto di 20 minuti, questo è stato comprato dalla televisione e così è iniziato tutto”.

Questo racconto non poteva che suscitare una certa curiosità nei confronti proprio del suo primo cortometraggio: “Raccontava di una signora anziana che abitava nel mio stesso piano. A parigi ci sono le ‘chambre de bonne’, delle stanze molto piccole che non hanno bagno, se non uno solo in comune con altre stanze. E per me la cosa strana era che tutte queste persone che condividevano il bagno, quindi un ambiente tra i più intimi, in realtà non si conoscevano, c’era una profonda discrezione. Venendo da Napoli per me era una cosa incredibile da osservare. Per girare quei 20 minuti di corto, mi avevano dato solo 5 cassette da 30 minuti l’una, quindi avevo solo due ore e mezza di girato, da cui estrarre l’intero lavoro”.

L’esperienza di Di Costanzo presso l’Ateliers Varan è proseguita nel corso degli anni, come lo stesso cineasta ha poi ricordato: “Io dopo sono diventato anche insegnante in questa scuola. E per alcuni progetti sono andato in diversi paesi in via di sviluppo (siamo stati in Cambogia, Georgia, Marocco…) con Rithy Panh, per portare il cinema dove non c’era. Non facevamo però del colonialismo culturale, non gli insegnavamo come fare i film, ma li aiutavamo a capire come volevano farli loro. Provavamo a mettere il cinema in contatto con la loro tradizione narrativa. Ad esempio in Cambogia non c’era il cinema, ma c’è un’antica tradizione teatrale”.

Tornando alla sua filmografia, il regista si è concentrato sul suo metodo di lavoro, in particolare in relazione a A scuola. “Sono stato lì tutti i giorni, circa 250 per tutto l’intero anno. Alla fine però avevo solo 50 ore di girato, ovvero 15 minuti al giorno di media. Se provi a filmare tutto, sarai sempre in ritardo rispetto a quello che succede. Tu devi prevedere quando succederà quello che ti interessa e riprendere quello. Infatti ho girato poco, ma tutto quello che c’è nel film ha una grande intensità. In tal senso è un lavoro densissimo. Nonostante usassi la camera poco, quando finivo la giornata ero stanchissimo”.

Facendo un passo indietro, si è poi arrivati infine al lungometraggio d’esordio di Leonardo DI Costanzo, Prove di Stato (1998): “L’idea è nata quando in Italia è scoppiato lo scandalo di Mani Pulite. In molte città l’intera classe politica era cambiata. Io ero abituato a vedere gli stessi politici da quando ero piccolo, semplicemente con incarichi sempre diversi. All’improvviso sono arrivati volti nuovi. C’era curiosità di vedere cosa sarebbe successo. E in molti comuni, non essendoci appunto i vecchi politici, nessuno si candidava alle elezioni. Ho capito di voler raccontare quel momento storico. Cercavo la vicenda di qualcuno impegnato a far rispettare le leggi in un ambiente da sempre abituato a gestire tutto attraverso un sistema clientelare. Ad Ercolano ho trovato una sindaca, Luisa Bossa, un’ex preside, che tra le altre cose un giorno alla settimana apriva il proprio ufficio alla cittadinanza. Era la possibilità di raccontare un luogo, non solo fisico: il luogo-ufficio diventa il campo di scontro tra la legge dello Stato e la legge del bisogno. Bruno Oliviero, mio cosceneggiatore, dice sempre che io ricreo ogni volta l’Antigone, declinandola sempre su un campo di battaglia diverso”.

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