Pesaro 45 – Mahsomim/Checkpoint, di Yoav Shamir (Nuovo Cinema Israeliano)

checkpoint Yoav Shamir

Sorprende Checkpoint dell’israeliano Yoav Shamir, perché la sua cinepresa è capace di disegnare una geografia umana difficilmente replicabile. Un film sulla consunzione e sulla violenza psicologica che sfibra i corpi e le relazioni umane. Un cinema verità che diventa testimonianza anche attraverso un minuzioso lavoro sulla scena.

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Con la sua cinepresa ad alta risoluzione Yoav Shamir ha girato Checkpoint, tra il 2001 e il 2003, in circa duecento posti di blocco controllati dai militari israeliani. Il risultato è di un film di grande impatto emotivo, sebbene i presupposti sembrassero potere offrire solo una sequela di immagini già viste di una quotidianità che, negli anni, ci è diventata, purtroppo, familiare.

Ma l’autore è in grado di sorprendere il suo pubblico e attraverso le proprie immagini è in grado di ricostruire e restituire gli ambienti dei checkpoint israeliani alle frontiere dei territori occupati, ma soprattutto di raccontare le solitudini di entrambe le parti.

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Siamo in Cisgiodania territorio militarmente occupato dall’esercito israeliano. Da nord (Jenin) a sud (Hebron) i termini della questione non cambiano e il controllo delle vie di comunicazione tra i villaggi e le città sono sotto il presidio dei militari.

Episodi che si susseguono, uguali nel loro assunto, ma diversi nel loro accadere. Sfilano, davanti alla cinepresa di Yoav Shamir, decine di persone, nelle quali l’autore riesce a cogliere la rassegnazione o la disperazione che diventa sottomissione, la rabbia trattenuta e il dolore dello sconforto. Sono tutte emozioni disegnate sui volti dei personaggi che negli 80 minuti di film restano impresse sul nastro di Shamir per disegnare una geografia umana difficilmente replicabile per l’amarezza e la sopportazione che esprime. Geografia dalla quale non sono esclusi i soldati israeliani che, si ha l’impressione, siano anch’essi vittime di pressioni psicologiche simili a quelle che infliggono ai loro controllati. Forse anche questi risvolti hanno consentito che il film venisse proiettato di frequente nelle caserme israeliane.

Checkpoint è un film sulla consunzione, quella dei soldati israeliani, a volte irridenti e infantilmente dispettosi, sulla consunzione dei palestinesi che devono attraversare le frontiere di Hebron o Jenin per lavoro, salute o affetti. Ma Checkpoint è anche un film sulla violenza psicologica che sfibra i corpi e le relazioni umane.

Quotidiana e marcata consunzione e violenza di parole, di gesti, di ragioni e Shamir è li che lavora sulla scena, allontanando o avvicinando, mutando il proprio punto di vista, ribaltando la scena e ascoltando le parole di chi deve attendere, solo per essere preso da stanchezza sotto la pioggia e al freddo affermare: “I terroristi non passano per i checkpoint.” Parole tanto vere quanto inutili all’interno dello scenario che si vive nel quale non mancano neppure gli attimi di umorismo che spezzano l’insistente ritmo della consuetudine, a testimonianza che ciò che si vive è reale e la realtà non può prescindere dalla sagacia umoristica. Il film diventa così uno strumento, una lente di ingrandimento, un microscopio che scava con pazienza tra le rovine umane, tra le relazioni di frontiera di due popoli così apparentemente distanti, ma così vicini nelle proprie radici culturali.  

Shamir, con il suo cinema verità si fa testimone (d’accusa?) di una condizione che non giunge in occidente, ha sostenuto: “Ho realizzato questo film per il mio popolo, la mia famiglia e gli amici che rappresentano quella parte della società israeliana che ha scelto di non sapere cosa succede così vicino a noi.”

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