Plague, di Dmitry Davydov

Chiaro omaggio al cinema neorealista, con uno sguardo odierno toccante e una metafora della Russia attuale. Menzione speciale della Giuria Internazionale del Lucania Film Festival appena concluso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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“Accogliere opere anche da paesi autarchici, come la Russia, è la dimostrazione che il festival raccoglie le frequenze più alte delle espressioni artistiche, superando censure e inviti al boicottaggio culturale. Se le opere arrivano a certe soglie di bellezza troveranno sempre una casa dove poterla raccontare al Lucania Film Festival.”

Queste le parole di Rocco Calandriello, Direttore Artistico Del Lucania Film Festival.
In occasione della 25° edizione è stato proiettato in Concorso Plague, il film diretto dal regista russo Dmitry Davydov che ha portato a casa la Menzione speciale della Giuria Internazionale del festival (QUI l’elenco completo dei premi).

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Il cineasta con Plague mette in campo un dramma psicologico ricco di simbologie e metafore, racchiuse dentro un quadro minimalista in bianco e nero. Ci troviamo in un villaggio nei pressi di Yakutia, in uno dei luoghi più glaciali al mondo, dove convivono a pochi metri di distanza due uomini di mezza età: Tikhon e Ivan. Tikhon è noto alla comunità per essere arrogante mentre la personalità di Ivan è pacata e tranquilla, ma ciò che accomuna i due personaggi è il fatto di dover crescere da soli un figlio adolescente. Una notte le barche nel cortile costruite da Ivan prendono fuoco e l’uomo, sicuro del fatto che l’artefice di tale incendio sia Tikhon, gli urla contro, ma quest’ultimo reagisce malamente con violenza. Il figlio di Ivan, Taras, guarda la scena e rimane incantato da Tikhon, vedendo per la prima volta una figura paterna autoritaria e non succube. Taras comincerà a legarsi sempre di più a Tikhon che ricambierà l’affetto, considerando suo figlio naturale un vero inetto. La calma del figlio di Tikhon si trasforma ben presto in grande rabbia repressa, che porterà un radicale cambiamento nella vita di tutti i personaggi.

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L’opera si apre dando spazio a paesaggi naturalistici, ”inquinati” dalla presenza di loschi scambi. La scena completamente girata con la macchina a mano permette di introdurre il personaggio di Ivan e il suo stato d’animo di insicurezza, evidenziato dall’instabilità dei movimenti che giocano anche sulla naturalezza dell’ambiente circostante. A fare non troppo da sfondo sono i rumori dell’acqua che si mescolano a quelli dei passi e degli uccelli, che ritorneranno più volte come segno di presagio. Gli elementi naturali sono importanti in Plague e la risorsa messa più in evidenza è il legno: simbologia di morte, trasformazione e rinascita, oltre che una smaniosa ricerca di stabilità in un mondo che sta crollando. E non è un caso che l’arrogante Tikhon, con il suo ultimo modello di motosega distrugge gli alberi, mentre Ivan usa quel legno per costruire un qualcosa di nuovo, ed ecco che ritorna il concetto di trasformazione e rinascita.

Il regista utilizza tra i tanti strumenti narrativi anche quello dei silenzi, infatti, assistiamo a pochi dialoghi scanditi da numerosi momenti di silenzio che sono però seguiti da affermazioni forti che lasciano poco spazio all’immaginazione. A cominciare da quelle di Taras che rivolgendosi al padre dice: “avrei voluto che fossi morto tu, non mamma”. La mancanza materna per entrambi i figli è centrale ma anche qua non viene quasi mai dichiarata apertamente, lasciando spazio a una mascolinità tossica dove la parola violenza viene equiparata al senso di forza e coraggio.

Il figlio di Tikhon ha come desiderio quello di riuscire finalmente a vedere l’aurora boreale, che “colorerà” il bianco e nero del film nel finale. L’elemento naturale di inizio film si converte in surreale. Non sappiamo se effettivamente solo noi spettatori abbiamo accesso a quell’aurora boreale, ma possiamo interrogarci sul significato di quest’ultima. Forse è quel desiderio di speranza e lieto fine che non vede luce in quel villaggio? O la limitazione di Taras di non aver apprezzato prima il valore di suo padre? O ancora, il segno di purezza di non essere scesi a patti con il diavolo, al contrario del figlio di Tikhon?
In un mondo dove manca fiducia e stima reciproca, regna sovrano l’odio e la violenza. Il bianco e nero come lo yin e lo yang, come forza e debolezza, innocenza e colpevolezza. E forse non vi è titolo più azzeccato di Plague: idee, emozioni e comportamenti malsani possono dar vita a eventi catastrofici e contagiosi come la peste.

Come ci ha raccontato a Pisticci il produttore del film Anatoly Sergeev, Plague è una storia complessa creata da Dmitry Davydov, che è molto noto in Russia come un regista profondo e significativo. Non è facile discutere pubblicamente di certi argomenti in Russia oggi, quindi gli artisti spesso decidono di nascondere questi temi all’interno dei loro film o opere. Dmitry vive in un villaggio remoto di Yakutia, in condizioni molto difficili. Una realtà decisamente diversa a quella che conosciamo qui in Italia, specialmente durante l’inverno, quando le temperature possono raggiungere i -50 gradi Celsius. In quel contesto, le persone non sono solo vicini di casa, ma condividono momenti di sopravvivenza, e ciò influisce sui rapporti interpersonali. Se qualcuno non si comporta come un ‘fratello’, possono sorgere conflitti intensi, quasi shakespeariani, come quelli descritti in Romeo e Giulietta o nei testi biblici.”

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