PROFILI – M. Night Shyamalan, la luminosità dell'invisibile
Meraviglioso regista di interni dell'anima, Shyamalan rinuncia e fa rinunciare alla vista, il suo è un cinema che si basa sull'obnubilamento percettivo di uno sguardo sul Reale in frantumi: cosa c'è oltre lo schermo filtrante dello sguardo e soprattutto cosa si nasconde all'interno dell'opacità descrittiva del racconto?
Per ogni cinema che si rispetti, una forma. Per ogni linguaggio visibile, un'espressione. Per ogni senso infine, una visione. Non è facile azzardare un profilo su Shyamalan. Si tratterebbe di rimescolare le carte della connotazione filmica di oggi, andandoci ad intrufolare in un territorio pericoloso, appunto perché spinto al limite dell'immaginazione: quello dello sradicamento testuale di ogni funzione riconoscitiva. Pratica il disorientamento percettivo il cinema di Shyamalan, proprio perché rinuncia sin dai primi barlumi di visione alla creazione di un orizzonte diegetico in cui agire le carte della messinscena.
Prima di avventurarci nell'analisi dell'opera del regista indiano però, è bene vedere dove nasca la sua visione delle cose, e soprattutto in che modo sia giunta a noi. In un caldo pomeriggio del 6 agosto del 1970 a Pondicherry, provincia di Tamil – Nadu (India), vide la luce Manjon Nelliyattu Shyamalan, da una famiglia benestante composta per lo più da medici. Il piccolo Manjon non fa in tempo ad abituarsi un minimo a vivere in India che la sua famiglia si trasferisce in un elegante quartiere di Philadelphia in Pennsylvania. Manjon è un bambino vivace, e per quanto ci riguarda, anche molto precoce. A soli otto anni riceve in regalo una cinepresa super 8 ed è lì, in quel preciso istante, che inizia a fantasticare di raccontare storie, cercando di muovere i primi passi nel mondo del cinema. Giusto il tempo di diplomarsi all'Episcopal Academy, scuola cattolica di Lower Merion, per poi iniziare a frequentare la Tisch School of the Arts della New York University. E' nel 1992 che Manjon riesce a giurare la sua prima opera, un certo Praying with Anger. Per le bizzarre traiettorie commerciali a cui non ci abitueremo mai abbastanza, il film da noi non è mai arrivato, anche se non è detta un'ultima parola per un eventuale ripescaggio in sede home video. E' un racconto in cui il regista risente ancora molto dei suoi natali indiani, con delle punte di grande originalità (soprattutto da un punto di vista visivo) che già facevano ben sperare. Con A occhi aperti (Wide awake) del 1994 già ci troviamo di fronte ad un autore, capace di imprimere a ciò che descrive un andamento evocativo, per certi versi ammaliante, in grado di aprire nuovi squarci di senso all'interno del racconto di formazione su cui poi si basa l'opera. Si parte dal titolo (occhi aperti) ed è già tutto un bel programma teorico. Shyamalan rinuncia e fa rinunciare alla vista, il suo è un cinema che si basa sull'obnubilamento percettivo di uno sguardo sul Reale in frantumi: cosa c'è oltre lo schermo filtrante dello sguardo e soprattutto cosa si nasconde all'interno dell'opacità descrittiva del racconto?
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Domande che trovano una risposta piena soltanto nel successivo Sesto Senso che è stato il primo grande successo commerciale del regista. Un bambino che vede i morti, uno psicologo che tenta di aiutarlo nel superare le sue paure, anche se…le cose non sono mai quello che sembrano. E' un meraviglioso regista di interni dell'anima Shyamalan, uno scultore impazzito di stati d'animo della materia che imprigiona il sogno di una Realtà impenetrabile, eppure meravigliosamente chiara nella sua lucentezza fotogrammatica, nella camera oscura di un desiderio incontenibile. Bruce Willis è prodigioso nell'arrestare la sua fisicità debordante nelle soglie dell'immateriale, il suo piccolo compagno di viaggio Osment quasi un prodigio di naturalezza espressiva. Dopo il successo del film, a Shyamalan si presentano due possibilità: andare incontro alle aspettative del pubblico o cambiare di colpo opera e girare un qualcosa di completamente differente. E' la volta di Unbreakable allora, giravolta ai limiti dell'ossessione sul potere dell'immagine fumettistica e sul contorno mitico di una vicenda in cui l'ormai solito Willis si trova a figurare quale ultimo superstite di un'intera stirpe di uomini invincibili. A dirla così, sembra un'opera buffa, quasi parodistica, in realtà si tratta di una delle scommesse più azzardate e vincenti degli ultimi anni: raccontare un delirio terminale (quello dell'"Uomo di vetro" interpretato da Samuel L. Jackson) sotto forma di appannamento in progress della costante visiva. Alla fine dell'opera si tratta di riunire sotto un unico assetto sensoriale le tante impressioni di visione suscitate dal film, per poi concludere che la fine, la metà e l'inizio del racconto non esistono perché l'ossessione del regista indiano è sempre quella: filmare il dopo-morte dell'occhio alle prese con l'accecamento (ancora parziale) di ogni costante abituale. Non esiste un cosmo a cui riferirsi, così come non è mai dato un ordine di riflessione sul singolo che non abbracci interamente l'ordito passionale del trovarsi nel bel mezzo della Storia. Deve pensarla così anche il protagonista di Signs, l'ultimo capolavoro del regista, una sorta di film del cuore/manifesto passionale che non ha bisogno di essere raccontato, descritto, smontato. Bisogna soltanto provare a goderlo immaginandolo come la più bella dichiarazione d'amore fatta all'uomo, al caso, alla Possibilità che abbiamo tutti almeno una volta nella vita di credere che ciò che ci accade abbia un senso, una ragione d'essere profonda. La forma cinema è smagliante, una specie di rivisitazione in chiave romantica di un antico mito d'appartenenza in cui viene filmata la lenta ascesi del protagonista tra le vetrate grigie di una casa capace di contenere una sorta di carne doppia, quella del proprio io insidiata dai fantasmi dell'esterno. E' per questo che stavolta il regista indiano ci è parso molto più sbilanciato rispetto alle opere precedenti, quasi in preda a un furore passionale (basti vedere come risolve l'interessante procedimento a ritroso che è ormai un suo marchio di fabbrica) che, se possibile, ce lo fa amare ancora di più. Vediamo ora di fare due conti con la sua opera complessiva, cercando di estrapolare degli elementi d'analisi che illuminino la strada del nostro percorso.
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Facciamo un bell'esempio, uno che riesca a porsi quale paradigma significante di un'intera idea di cinema: in una sequenza sublime de Il Sesto senso, il protagonista Willis, da perfetto fantasma di sé in grado di evocare la cortina fumogena del teatrino di ombre cinesi/set guarda il suo piccolo interlocutore mentre a sua volta indietreggia spaurito di fronte a segni di presenze altre. Il cinema è una lastra opaca in cui far interagire la presenza finzionale/costruita della visione con quella del simulacro di un intero universo che non è dato conoscere subito, e soprattutto per intero. L'unico modo per affrontare lo snodo rappresentativo dell'infilmabile (il vuoto filmato da un occhio proveniente da una dimensione percepibile soltanto in un secondo momento, affiorante da regioni di senso posticipate) è allora quello del giocare tutte le carte nel ritardo dello scoppio, in una sorta di flashforward impazzito che riconfiguri le ragioni del vedere attuale/presente, per poi trasfigurarle in orizzonte lacunoso e per certi versi inabitabile. Ecco allora lo sbilanciamento dell'autore: reinventare un'idea di azione (quella incerta del Sesto senso, quella delirante di Unbreakable, perfino quella ipnotica di quest'ultimo Signs) in parafrasi assolutamente oscura del corrispettivo temporale. Non esiste tempo in Shyamalan, ma soltanto metamorfosi statica del movimento. Assiste all'impossibile sguardo sul cinema il protagonista deceduto del Sesto senso in una sorta di lungo viale del tramonto, non più raccontato al calore della luce, ma direttamente al sorgere del nuovo sole della visione, riperpetuato ritualmente quale automaticità inesausta di senso che non può non riprodursi, avvalorando ogni ipotesi meccanicistica che la vuole proprio per questo motivo svuotata di un'apparente motivazione d'essere. La gratuità del meccanismo spettacolare messa in campo da Shyamalan allora non conosce temporalità che tenga, rifugge da ogni dettaglio che possa collocarla in un preciso tempo della visione, ma soprattutto, in preda ad un furioso moto centrifugo, cerca di esulare il prima possibile da una risistemazione dello sguardo in confini prefissati.
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A dispetto di ogni virtualizzazione dello spostamento che si possa immaginare oggi, Shyamalan elimina referenti, mettendo in un angolo ogni ipertesto visivo che possa farci agganciare ad un qualsivoglia dettaglio diegetico. Il cinema deve essere allontanamento, frontiera lontana verso cui incamminarsi senza sapere esattamente quale sia la strada, e soprattutto scavalcamento deciso di tutte le possibili idee di localizzazione spaziale/temporale che si rispettino. In Unbreakable il vortice fumettistico che scandisce l'avvicinamento peripatetico all'esplosione finale (un nuovo azzeramento di ogni codice sensoriale conosciuto, vista la velocità dell'agnizione, dello svelamento e del conseguente epilogo) è lo stesso tenore discorsivo rispettato nelle fulminati digressioni visive di Signs, la stessa marcia esibita nella sua variante illuminista. Non esiste rispecchiamento tra rappresentazione filmica del Reale e conseguente specchiarsi della matrice sensistica individuale in quella generale. Shyamalan non può fare a meno di raccontare storie, e molti si affrettano nell'indicarlo come probabile grande autore del futuro, quando non ci si rende conto che il cinema di questo grande autore è semplicemente funerale di se stesso, messa-in-morte al lavoro che recupera brandelli di vita (il meraviglioso post-romanticismo sfrenato de il Sesto Senso, ma anche l'improbabile epicità negata in partenza di Unbreakable) filtrati dalla luce nera del non più visibile. Ci troviamo già oltre la classicità allora, direttamente all'interno di un palindromo sfaccettato in cui non è più possibile vedere, ma soltanto intravedere. Già intra-vedere. Tra il segno di disgiunzione e il vedere, a volte c'è un abisso. Shyamalan prova a filmarlo.