Queer, di Luca Guadagnino

Il film più stratificato e personale di Guadagnino. Magnifico adattamento di un romanzo di culto (Burroughs) e riflessione critica sulla fuga dalle immagini nel XXI secolo. VENEZIA81. Concorso

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Aveva contratto la malattia della morte. La morte era in ogni cellula del suo corpo. Emanava un debole, verdastro vapore di decadimento. Se fosse stato buio, immaginò Lee, lo avrebbe visto brillare”. In una delle sue tante peregrinazioni nei locali di Città del Messico, agli inizi degli anni Cinquanta, il protagonista di Queer di William Burroughs ci presenta così uno dei suoi numerosi compagni di bevute. Soffermandosi sul corpo, sui gesti e sull’aura di decadimento che descrive come quasi olfattiva, Lee ci rende sottilmente partecipi anche del suo personale trauma e della sua intima battaglia contro un’infelicità endemica che non espliciterà mai direttamente. L’omonimo adattamento di Luca Guadagnino inizia proprio da un fascio di luce desaturata che “brilla nel buio” dell’inquadratura mettendo lentamente a fuoco le tracce sparpagliate di vita del suo protagonista. Tra queste, le prime frasi del romanzo di Burroughs appena scritte su una macchina da scrivere scoprono da subito le carte del discorso metanarrativo. Sì, perché la storia del cinquantenne americano che cerca di disintossicarsi dalla droga vagando per i bar della capitale messicana, abbandonandosi all’alcool e al suo insaziabile desiderio sessuale, è una sorta di matrice letteraria per l’universo metaforico di Burroughs. Un romanzo breve che sonda a vari livelli istanze autobiografiche come il rapporto con la sua omosessualità, la tossicodipendenza e la misteriosa morte della moglie che lo coinvolge in prima persona.

E allora, il vagare fisico e il divagare verbale di Lee sono ostinatamente declinati al presente perché gli abissi traumatici e le dipendenze lo imprigionano alla superficie del suo dolore. Guadagnino riparte da questo stallo emotivo cercando istantanee vie di fuga: da un lato riproduce fedelmente la caratterizzazione del personaggio (in un apparente adattamento filologico) attraverso il pedinamento del corpo di Daniel Craig (magnifica interpretazione, un’aderenza fisica ed emotiva totalizzante); dall’altro fa costantemente deflagrare un’infinità di riferimenti intertestuali invitandoci a partecipare attivamente alla ricerca di nuovi referenti emotivi. Esattamente come in Chiamami col tuo nome, l’archivio di forme del passato non viene utilizzato come mero vezzo nostalgico o vintage ma come vettore di una radicale urgenza sentimentale nella vita del personaggio. Le stesse dinamiche del desiderio omoerotico, riassunte nel personaggio di Allerton, non restano mai ancorate a una rivendicazione sovversiva nei confronti dei codici del melodramma classico ma vogliono definitivamente trascendere i confini culturali novecenteschi nel tentativo di comporre un’universale poesia d’amore e dolore. In che modo?

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Le referenze vanno dal subversive text dei melodrammi di Douglas Sirk alle decostruzioni moderniste di Reiner Werner Fassbinder; dal fiammeggiante universo barocco e queer di Powell/Pressburger ai riflessi nello specchio dell’Orfeo di Cocteau. Nella riscrittura immaginaria della filmografia di Bernardo Bertolucci, poi, questo è il film di Guadagnino più vicino a Il tè nel deserto. Innanzitutto per l’esplicitazione esistenzialista del rapporto tra i rispettivi romanzi e le biografie degli autori (da Burroughs a Bowles), poi per i riferimenti letterali, come l’inquadratura in plongée degli occhi rovesciati di Lee, visti come soglia metaforica tra realtà fenomenica e fantasmi inconsci. A tutto questo va aggiunta la decisiva mediazione della musica: la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è la più “classica” (in senso hollywoodiano) scritta per Guadagnino, ma viene costantemente innervata da un repertorio di canzoni utilizzate in modalità antifrastica che aprono impensati link con la nostra esperienza. Pensiamo al grunge dei Nirvana associato in maniera visionaria alla beat generation o al post-punk dei New Order nuovamente utilizzati come veicolo di fuga: splendida l’inquadratura prolungata sul primo piano di Lee/Craig perso tra autodistruzione e consapevolezza.

Fermiamoci qui. Perché Queer è un film che può (e in un certo senso vuole…) generare processi interpretativi infiniti. Ma, nello stesso tempo, è forse l’opera più intimista filmata da Luca Guadagnino. Un film che ridiscute il gigantismo dei set e il suo notevole sforzo scenografico nel paradossale tentativo di fuga da questo scintillante universo iperrealista divenendo spettro, puro sguardo, immagine incorporea del desiderio (come nei quadri di Hopper o Estes idealmente citati). La stessa lisergica esperienza finale dell’assunzione dello yaga nella foresta – un trip a metà tra il rito stregonesco di Suspiria e l’abbraccio fuori dal tempo nel finale di Challengers – porta a termine il processo di dissoluzione dei corpi ponendosi da qualche parte tra lo stile delle avanguardie storiche e un semplice software di Intelligenza Artificiale.

Insomma, la fuga sentimentale è sempre dalle immagini quindi la riflessione si fa straordinariamente contemporanea. Queer è nel contempo un magnifico adattamento (fedele eppure trasformativo), una colta e sovraccarica riflessione sulla persistenza del modernismo cinematografico nel XXI secolo, infine un film personalissimo che cerca di riconfigurare il desiderio e il dolore in un’immagine riciclata ma ancora capace di significare qui-e-ora (come si dice spesso in We Are Who We Are). Il punto è questo: piaccia o meno il suo cinema, Luca Guadagnino crede ostinatamente in quel fascio informe di luce che torna a brillare nel finale dando colore e calore al doloroso percorso di una vita che trova il modo di sfuggire alla morte. Del resto, “quello che Lee cercava in ogni rapporto umano era un senso di contatto”.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
3 (7 voti)
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