Quiet Life, di Alexandros Avranas

Un film che nel rigore spaziale e le atmosfere gelide trova uno spiraglio di luce in una situazione drammatica, e sviluppa una dimensione sociale e politica. VENEZIA81. Orizzonti

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La vita quieta di Avranas è disturbata, agita da forze ed umori violenti, scossa dal silenzio di uno sguardo che non trattiene il pianto. Quello del regista ellenico è un cinema che resta su un registro turbato nelle sue atmosfere placide e rigorose della camera fissa, ad osservare in questo caso una famiglia russa arrivata in Svezia per chiedere asilo politico, a causa di una persecuzione. La violenza ha un duplice registro, interno ed esterno: viene evocata dal passato nelle deposizioni davanti ad una insensibile commissione, del presente viene descritta nei paradossali sistemi d’accoglienza che si rivelano alla prova dei fatti un sistema crudele di sevizia psicologica. A farne le spese maggiori sono i ragazzi, che seguono il destino infelice dei propri parenti.

La storia raccontata ha una data precisa, il 2018, e serve ad affrontare un problema emerso con dimensioni crescenti negli ultimi anni, la sindrome da rassegnazione, un sonno che è un vero e proprio coma, e colpisce soprattutto i giovanissimi esposti a pesanti situazioni di stress, come possono essere le pratiche da seguire per ottenere asilo. Esercizio del quale sono vittime le due figlie del protagonista, che insieme alla moglie viene a contatto con le idiosincrasie, le paranoie e la pignoleria della burocrazia verso persone che avrebbero bisogno di fiducia e trovano al contrario diffidenza e malafede.

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Da Miss Violence, il titolo più noto dell’ autore, Quiet Life eredita le modalità ed il linguaggio visivo, uno stile che può ricordare Lanthimos per il cinismo e le linee asciutte nelle perfette inquadrature geometriche, pronte a sgretolarsi nella tragedia. Con delle differenze importanti. Il costrutto domestico assume stavolta una dimensione sociale e politica di denuncia, e si distacca dal pessimismo dei precedenti a favore di una speranza almeno accennata. L’immigrazione è l’altro tema ritornante, declinato già in Love Me Not sottoforma di una ragazza assunta da una coppia di ricchi come madre surrogata. La tensione vive nella pulizia degli ambienti e nei sorrisi finti, nella gestualità che sfocia nel ridicolo, tutto troppo controllato fino allo sfinimento, per ottenere una corda tesa e coprire un principio di isteria individuale e collettiva in procinto di esplodere. Una precisione che volutamente nel finale cambia tono e colore verso un’apertura emotiva auspicabile, ed una controindicazione piuttosto evidente, la perdita di compattezza. Un difetto che non penalizza la centralità del discorso, né mette in discussione l’abilità della messa in scena, dall’architettura spaziale ai carrelli sincronizzati sugli attori, fino alla scelta della giusta lunghezza di campo per restituire lo stato d’animo dei personaggi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
4.33 (3 voti)
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