Se posso permettermi Capitolo II, di Marco Bellocchio

Quell’ironia già presente negli imbarazzanti dialoghi del primo capitolo, qui si apre definitivamente in commedia. E conferma la liberà sempre più assoluta di Bellocchio. VENEZIA81. Fuori concorso

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Accadeva già nel primo Se posso permettermi che il film si aprisse al cimitero di Bobbio. Con il compianto Gianni Schicchi intento a sistemare i fiori davanti alla tomba di famiglia e con il protagonista Fausto che andava a rendere omaggio alla madre morta da poco. Santa donna. Il sorriso di mia madre... Ed era un’atmosfera leggermente malinconica. Così come era amara la confessione finale: “Non ho più rabbia… la rabbia di spaccare tutto. Vorrei dire molte cose sul mondo che mi circonda e non lo faccio. È questo che fa paura”. Parole sorprendenti, se si pensa al peso della rabbia nel cinema di Bellocchio. Era un po’ come se tutto fosse permeato da un senso della fine, raccontasse un esaurimento delle energie vitali. Del resto, in cosa consiste la “stranezza” di Fausto, quella sua stanchezza da irriducibile non lavoratore, quel profondo disagio che lo induce a guardare in disparte il mondo, dalla distanza di sicurezza di una posizione di semplice osservazione?

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Qui, nell’incipit di Se posso permettermi Capitolo II la situazione è decisamente più surreale. All’imbrunire, Rocco Papaleo interpreta il celebre monologo di Amleto davanti a una ragazza, ma viene interrotto da Filippo Timi che si aggira misteriosamente per il cimitero. Mentre tutti escono di scena, un gruppo di musulmani depone una salma davanti alla tomba di famiglia di Fausto. Ed è il segno, forse, di un cambio di registro rispetto al primo capitolo. O meglio, di una radicalizzazione di alcune tracce. Come se quei sogni ad occhi aperti del “dottor” Fausto si fossero finalmente liberati in una specie di sabba, per materializzarsi in una galleria di personaggi e in una serie di situazioni ai limiti dell’assurdo. Che ruotano sempre intorno all’ossessione di sistemare e “normalizzare” il protagonista, sommerso dai debiti e incapace di dare un indirizzo alla propria vita. Così, dapprima la governante rivendica la proprietà della casa di famiglia e promette di far fronte a tutto, poi torna l’ufficiale dei carabinieri che vuole convincerlo a sposare la figlia. Poco dopo il parroco rimprovera Fausto di aver venduto ai musulmani la cappella di famiglia e perciò gli offre un lavoro da sagrestano, mentre un oscuro personaggio propone uno strano affare: trasformare il palazzo in una casa di fantasmi, nuova, strabiliante attrazione turistica di Bobbio. Alla fine, piomberanno in casa anche i ladri.

Quell’ironia già presente negli imbarazzanti dialoghi del primo capitolo, qui si apre definitivamente in commedia, in un’irresistibile successione di momenti esilaranti. Confermando una delle vene più autentiche del cinema di Marco Bellocchio, il più delle volte nascosta e tenuta a bada nel gorgo delle sue ossessioni, ma sempre più incline a venire fuori con il passare del tempo. Una disponibilità al riso che detta il ritmo del racconto e delle gag, perfettamente sostenuto dagli interpreti: Fausto Russo Alesi, Fabrizio Gifuni, Barbara Ronchi, Filippo Timi che, insieme a Pier Giorgio ovviamente, fanno parte ormai a pieno titolo della famiglia bellocchiana, fino alle apparizioni più imprevedibili dei “volontari” assoldati nelle serate bobbiesi, Rocco Papaleo ed Edoardo Leo. Ma quest’apertura al gioco conferma soprattutto un’altra cosa. Una libertà narrativa e formale sempre più assoluta, radicale. Sì, certo, il cinema di Bellocchio si è sempre nutrito di visioni e fantasmi, ma ormai l’invenzione e l’immaginazione, lasciate a briglia sciolta, creano un vero e proprio altro mondo. E Bobbio non può esserne che il centro, il luogo da cui tutto parte e a cui tutto arriva. Era già evidente nella seconda parte di Sangue del mio sangue, ma in generale in tutti i corti e i lavori realizzati nei percorsi formativi di Fare cinema, in cui questa libertà ha la possibilità di esprimersi in tutta la sua purezza. Come se nei pressi del Ponte del diavolo si nascondesse un portale per una dimensione parallela, in cui convivono vivi e morti, santi, madonne, demoni, pagliacci, volti dei sogni e dei ricordi. Bellocchio dice che è un commiato, un saluto alla casa di famiglia e ai pugni in tasca. Ma in quella domanda finale del dottor Fausto, “che faccio, accetto?”, c’è già la promessa di un ritorno.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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