ShorTS International Film Festival: intervista a Daniele Ciprì

Il regista, direttore della fotografia e ora docente ci ha raccontato il suo sguardo sul cinema di oggi, tra confronti intergenerazionali e un presente iper-calcolato (e controllato)

--------------------------------------------------------------
CORSO ESTIVO DI CRITICA CINEMATOGRAFICA DAL 15 LUGLIO

--------------------------------------------------------------

Tra gli ospiti dello ShorTS International Film Festival di Trieste, giunto ormai alla sua 25esima edizione, c’è anche il regista e direttore della fotografia Daniele Ciprì (Cinico Tv, Il ritorno di Cagliostro, È stato il figlio). Lo abbiamo intervistato in esclusiva per parlare di cinema e del suo immaginario tra passato, futuro e confronto generazionale. Ecco cosa ci ha raccontato.

--------------------------------------------------------------
CORSO DI PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE CINEMATOGRAFICA: ONLINE DAL 15 LUGLIO

--------------------------------------------------------------

 

----------------------------
UNICINEMA QUADRIENNALE:SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

In che modo oggi è possibile riflettere di immaginario cinematografico con le nuove generazioni?

Quello che facevo con Maresco prima di arrivare a Cinico TV era una palestra di cortometraggi, mediometraggi, di un’arte libera di raccontare veramente di cuore, di sentimento senza avere controlli e filtraggi da nessuna parte. Oggi siamo nel mondo delle immagini e siamo nel mondo di Netflix, delle piattaforme, di un cinema che comunque si è standardizzato, si è perfezionato dal punto di vista visivo, ma si è svuotato di quella indipendenza di cui il cinema si nutriva. Io e Maresco poi non abbiamo mai raccontato la nostra realtà in un mondo reale… Ecco io che ho ancora a cuore quel cinema di fantascienza anni ’50 –  cito sempre un film che ho amato che è L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel – ho questo modo di interpretare la realtà, nel senso che dico le cose della realtà ma le dico in un contesto completamente astratto, surreale. Ai ragazzi io non do la speranza di diventare un regista, anzi la prima cosa che io dico loro è che devi avere l’esigenza per fare questo mestiere, perché  tutto quello che sta nascendo mi sembra un po’ troppo calcolato, troppo superficiale. Il cinema è una cosa importantissima culturalmente, come la letteratura e come la pittura, ma la stiamo facendo diventare un po’ povera. Guardiamo gli incassi e, a volte, che cosa vuole il pubblico, che è una cosa ancora peggiore. Il pubblico deve stare con me nel mio mondo, io lo devo accompagnare nel mio mondo. Purtroppo la passione non ti completa, io dico sempre che devi avere la malattia, che devi essere hitchcockiano, devi essere il guardone, devi stare sempre insieme a quella macchina da presa, radiografare la realtà; infatti dico spesso ai ragazzi di fare documentari, che è la cosa migliore.

A proposito di cinema documentario, gli ultimi anni hanno visto un grande successo del genere, legittimato anche in ambiente festivaliero. A cosa è dovuto secondo te questo exploit?

Attraverso il cinema documentario puoi realizzare delle cose forse anche più belle rispetto al cinema di finzione e a mio parere molti registi si sono accorti che il documentario offre anche molte più libertà. Il discorso è sempre lo stesso: il cinema è molto controllato e calcolato proprio perché costa e quindi è normale che un film debba rispettare tutti i criteri che poi ti garantiscono l’ingresso economico. Questo avviene anche con il documentario ovviamente, ma innanzitutto puoi dedicare molto più tempo alle riprese, e poi io penso che da questo punto di vista assomigli molto al cortometraggio. Io rimprovero sempre tutti, e forse ora siamo riusciti a ridare dignità anche al cortometraggio. D’altronde non solo è molto più complicato narrare nella brevità, ma è al contempo molto più facile rimanere nel tempo. Diceva Ferdinando Scianna che l’impressione di una fotografia rimane impressa nel tempo, lo scatto invece no (che è poi quello che facciamo oggi con gli smartphone). Anche io e Maresco siamo rimasti nel tempo per quelle pillole che arrivavano e subito sparivano. Oggi forse qualcuno si è accorto che la libertà che garantiscono il corto e il documentario è un qualcosa di importante. Io consiglio ai ragazzi di fare molti documentari, e d’altra parte, a Palermo noi abbiamo il Centro Sperimentale dedicato proprio al cinema documentario.

Tu poi sei un grande affezionato all’analogico. Come ti confronti con il nuovo modo di fare cinema e con i nuovi formati? Del resto tu stesso una volta hai detto che Cinico TV oggi non è replicabile perché si è trasferita su TikTok.

Io credo che tutti dobbiamo essere liberi di usare tutto quello che si vuole nel cinema, però sicuramente io sono legato a un immaginario che è quello della chimica, nel senso che il mio immaginario è ruvido, sporco, granuloso, imperfetto. Molti colleghi ormai utilizzano il digitale e questo può essere utile per la storia che stai raccontando, ma non per tutti i film. Io sto vedendo che c’è molta democratizzazione nelle immagini, tutti sono bravi tecnicamente certo, però sicuramente l’immagine è sempre liscia, è sempre pulita, perfetta e questo secondo me può essere anche un errore. Secondo me dovrebbe rimanere la possibilità di girare un film tanto in digitale, quanto in pellicola. Si può perfino usare il telefonino, ma basta che non lo si faccia solo per il gusto di dichiararlo. Quello che conta per me non è tanto la macchina-cinema, quindi la ripresa, ma più che altro costruire quello che c’è davanti alla macchina alla presa. Io poi, personalmente, preferisco ancora avere quella concentrazione che ti da l’analogico, cioè la pellicola. Questo potrebbe essere educativo anche per i giovani, perché la pellicola ti da un’educazione, ti dice che devi girare solo nel momento in cui sei convinto di quello che devi girare.

Anche perché, da questo punto di vista, tu sei cresciuto con modelli illustri…

Sì, io ci sono cresciuto con quel cinema. Io andavo al cinema a vedere Tarkovsky, andavo al cinema a vedere Bergman e avevo quel tipo di immaginario. E poi il cinema ha tante di quelle cose bellissime e noi ne usiamo una sola, raccontiamo delle storie che annoiano tutti e che non servono a nulla, perché poi alla fine sono tutte le stesse; quello che consiglierei anche alle piattaforme è di fare cose un po’ più sperimentali, surrealiste, più “fanta-coscienza”. Invece tutto deve diventare un film con un inizio, una fine, uno scopo e un pubblico. Io non spiegherò mai un mio film. Quando chiesero a Kubrick che cosa volesse dire con 2001: Odissea nello spazio, lui rispose che lasciava libero il pubblico di interpretare e il cinema è bello per questo. Anche Truffaut, in conferenza stampa, interrogato su che messaggio volesse mandare, rispose che lui i messaggi li mandava per telegramma. Oggi ci si concentra sulla sceneggiatura, sulla storia, gli sceneggiatori ormai pensano di realizzare loro i film, ma non è così. Io stimo tutti gli sceneggiatori, ma alla fine è il regista, l’artigiano a dover creare il film. Ricordo anche un’intervista durante la quale chiesero a John Ford come avesse fatto una determinata scena di Sentieri selvaggi e lui disse “con la macchina da presa”. Questi erano i grandi maestri, per me sono riferimenti continui, registi che ci hanno portato all’amore per quello che facevamo. Penso anche  a Orson Welles e a Kieslowski, anche perché io quando ho visto il Decalogo sono rimasto impressionato. Dei registi più giovani e contemporanei mi piace molto Shyamalan ad esempio. Perché i suoi film vengono sempre dalla mente, dalla malattia; lui ha una malattia del cinema e una malattia psicologica e quindi tutte queste cose le unisce.

Una delle protagoniste del tuo cinema è indubbiamente la città di Palermo. Come è cambiato nel tempo il tuo rapporto con la città?

Palermo per me è diventata anche più bella perché non ci vivo più, penso che sia successo  come per tutti gli esseri umani che si allontanano dalla propria radice e poi ci ritornano. Io, dopo aver avuto delle delusioni mi sono allontanato, perché sapevo di poter fare il mio mestiere anche altrove. Ma quando sono ritornato ho amato Palermo ancora di più. Questa è una città che, è inutile negarlo, a me dà degli stimoli infernali, nel senso che non riesco a levarmi dalla testa la mia terra, la mia terra non come concetto del mare, delle montagne e quant’altro, ma del concetto del siciliano, del gesticolare, del modo di parlare. Certo io a un certo punto me ne sono andato, ho avuto il coraggio di slegarmi da questo posto, che ti risucchia per l’amore che provi nei suoi confronti. Ho affittato una casa a Trastevere, e da lì non me ne sono andato più. Ho stabilito una base a Roma, che era poi quello che avrei voluto fare anche con Maresco, ma questa cosa non è riuscita. Però sicuramente sono legato a quella terra sia a livello familiare che a livello affettivo. Ogni volta che vado in Sicilia, non dico a Palermo, ma in Sicilia in generale ho delle forze in più, perché è un luogo che mi appartiene a livello culturale, nel bene e nel male.

----------------------------
SCUOLA DI CINEMA TRIENNALE: SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative