"Sky Captain and the World of Tomorrow", di Kerry Conran

Un'idea di cinema inadeguata a dipingere quelle avventure in cui domina la fascinazione di un corpo riletto dal nostro immaginario.

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Senz'anima. L'opera prima di Kerry Conran, l'atteso Sky Captain and the World of Tomorrow è l'esserci di un corpo senza vita, vuoto e sfuggente, incapace di intessere un ritmo circolatorio tra il nostro sguardo e i corpi amati. Un corpo che diviene finzione di un'avventura impossibile, nonostante il brulichio iniziale fatto di luci, macchine belligeranti, un eroico capitano del cielo e una coraggiosa fotoreporter a caccia di uno scoop sensazionale. Eppure l'impossibilità del film di Conran a riflettere la propria presenza è iscritta fin dall'inizio, nella sequenza che ci proietta all'interno del Radio City Music Hall (siamo nel 1939) dove scorrono le immagini de Il mago di Oz. Un illusorio tentativo di sovrapporre il proprio sguardo ai quadri amati con ossessivo vampirismo, rivissuti e riscattati dalla memoriale fissità che ne mima la vita/la morte; un istante, pochi fotogrammi cadono davanti ai nostri occhi e ricompaiono dentro il nostro corpo, un intreccio in cui si avverte l'urgenza espressiva di una presenza, il proprio voler essere tra un passato e un presente, tra ciò che si vede e ciò che è stato visto, ancora e per sempre: il volto di Dorothy/Judy Garland, un sorriso che stupisce chi lo osserva, attimi che ci dicono del tangibile bisogno di voler raggiungere una forma prima che essa si dissolva per conto suo. Nel film di Conran accade invece che progetti si aprano e si svolgano per essere proiettati nel vuoto, un vuoto che scopre la condizione di impotenza, di non-potere, di un cinema impedito da uno sguardo incapace di cogliere il senso di fisicità delle cose e in cui è lo stesso uso del digitale a farsi segno (in)significante. Un cinema che trasforma o minaccia di trasformare la vivacità desiderante dello sguardo, di rapprenderne l'essenza in uno spazio infinito in cui (dis)perdersi e in cui, invece, si rischia di sprofondare esangui. In questo ricavare, comporre, definire ogni parte in modo equilibrato e conciso, le cose coagulano e si allontanano in una sorta di fissità: una caduta, un sorriso, uno scatto fotografico con cui fissare il mostrarsi dei corpi. Segni che scivolano sulla pelle e mettono in scena un equilibrio che corregge il motivo dell'amore come desiderio, superandolo con l'idea vana dell'amore come tranquillo possesso. Se almeno sboccasse il sangue… Oltre le trame che trattengono i corpi, velano le impudenze, accecano gli sguardi, purificano le impurità, sublimano l'eroismo in un atto unico fatto di lineari traiettorie, false vertigini, superficiali naufragi. Così Conran è complice di un cinema che si abbandona ad un prolungato abbraccio illusorio che ignora la densità del corpo amato e gli riposa accanto (in)consapevole della "bella menzogna" che avrebbe potuto affascinar(ci). Un'idea di cinema che presuppone la possibilità di vedere da fuori le cose del mondo, un tessuto diegetico sbeffeggiato dal suo voler essere racconto "mitico" (la ricreazione dell'Arca di Noé) liminare a un movimento avventuroso che rimane inadeguato a dipingere quei viaggi "au pays de l'imaginaire" in cui domina la fascinazione di un corpo riletto dal nostro immaginario. Un film lontano da un'esasperazione tesa a porre in crisi o almeno a segnare di crisi i termini di una sintesi formale in cui la linea si campisce in spazi che tradiscono/traducono il lento e segreto incrinarsi del mondo/cinema del domani.


Titolo originale: id.
Regia: Kerry Conran
Interpreti: Jude Law, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Michael Gambon, Ling Bai, Giovanni Ribisi      
Distribuzione: Filmauro
Durata: 107'
Origine: USA/Italia/UK, 2004

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