Taxi Monamour, di Ciro De Caro

Dall’autore di Giulia, ancora un film di pedinamenti e rincorse al femminile. Sempre in bilico tra il sogno e la malinconia. Tra il dolore e la gioia di vivere. VENEZIA81. Giornate degli Autori.

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Che strano cinema è quello di Ciro de Caro. Libero e indipendente, aperto all’improvvisazione e alle derive di spostamenti continui, eppure in qualche modo sempre fedele a se stesso, quasi ossessionato dal ripercorrere figure, luoghi, situazioni ricorrenti. Un cinema autoriale e personale, indubbiamente. Che sembra avere bisogno del femminile come punto di vista mentale ed esistenziale ancor prima che corporeo. E così Taxi Monamour è in qualche modo un film gemello del precedente Giulia, con cui condivide la protagonista Rosa Palasciano, una sorta di Musa ispiratrice del regista e insieme a lui co-autrice della sceneggiatura. Qui la sua Anna condivide con il personaggio del film precedente, l’atteggiamento straniato, instabile e ondivago, alla insistente e dolorosa ricerca di un contatto umano all’interno di una Roma lontana da ogni inclinazione folcloristica ma anzi relegata alla dimensione di non-luogo, ideale contenitore di solitudini (uno degli aspetti più interessati del film) in cui cercare disperatamente “qualcosa”.

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Quel “qualcosa” per Anna è un’altra giovane donna. Un doppio femminile da inseguire ostinatamente, in cui rispecchiarsi o forse semplicemente con cui cercare una forma di comunicazione, un contatto dicevamo. Questa seconda donna è l’ucraina Cristi (interpretata da Yeva Sai), giovane fuggita dalla guerra e incontrata per caso di notte a una fermata dell’autobus. Un “altro” femminile che è presenza aliena, straniera e quindi estranea al contesto, il doppio passivo e forse razionale di Anna. Tra loro comincia un rapporto di amicizia sottile, in qualche modo sfiorato, fatto di tragitti in macchina, pedinamenti affettivi, balli alle feste quasi sempre sospesi, interrotti. E la malattia è sullo sfondo, oscuro presagio e allo stesso tempo detonazione di questo legame indecifrabile e ostinato, che forse si interrompe prima di diventare relazione amorosa o forse no. Al quarto film appare più chiaro come l’ostinazione quasi compulsiva in opposizione alla stanzialità e alla stabilità sociale ed emotiva sia il “tema” prediletto del regista italiano. Il finale della rincorsa in macchina sulle note di La Javanaise di Serge Gainsbourg, che gradualmente si “spengono” lasciandoci ai rumori attutiti del mondo reale e di un futuro incerto, è emblematico della costante oscillazione tra pieni e vuoti di questo film e più in generale del cinema del regista, che a oggi firma probabilmente la sua opera più rotonda e convincente. Un cinema sempre imprigionato in un movimento claustrofobico tra il sogno e la malinconia. Tra il dolore e la gioia di vivere.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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