Tentigo, di Ilango Ram

La premessa surreale si tramuta presto in un inno alla risibilità dell’uomo comune. E anche in faccia ad una certa ridondanza, non risulta mai retorico. Stasera al Karawan Fest a Roma

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L’immagine da cui si ramifica la narrazione di Tentigo, non è solo l’incipit del suo racconto: è il catalizzatore di ogni singola istanza del film, quasi la storia non potesse affermare i discorsi che la attraversano o mettere in moto il suo stesso registro umoristico, se nel cuore del lungometraggio non ci fosse questo elemento “centripeto”, verso cui convergono i personaggi, e i loro stessi processi di rielaborazione luttuosa. A primo impatto, infatti, la scoperta della morte del proprio padre traumatizza l’ignaro protagonista: ma il dolore per la scomparsa è perlopiù effimero, transitorio, perché viene immediatamente sostituito da una gamma di emozioni di natura diversa, che hanno nella “sorpresa” – e nel senso di stordimento che provoca – la loro genesi e destinazione. Una repentina inversione di marcia e di sensazioni che nasce, appunto, da un singolo paradosso: ovvero la capacità del cadavere paterno di conservare un’erezione incrollabile, anche in faccia all’assenza di qualsiasi impulso vitale a cui lo ha appena destinato la morte.

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È a partire da un assunto così deliberatamente surreale e grottesco, che il debuttante Ilango Ram codifica i linguaggi dissacranti di Tentigo, articolando all’insegna dell’ironia e dell’assurdo le riflessioni che andrà a proporre nel corso del racconto. Attraverso la figura del figlio maggiore, che a sua volta metterà al corrente il fratello e la sua famiglia della situazione paradossale che si trovano ad affrontare nella preparazione del funerale paterno, il cineasta dello Sri Lanka (che presenta questa sera il suo film a Roma al Karawan Fest) mette in moto una spirale continua di vicissitudini tragicomiche, necessarie sì a proiettare lo spettatore all’interno di un intreccio propriamente ridicolo: ma finalizzate a connettere le idiosincrasie dei protagonisti al senso di perdita che stanno esperendo. Tanto che lo spirito comico del racconto si apre, con la prosecuzione della storia, ad una riflessività inattesa: quasi l’avvento di un fenomeno incredibile come quello che stanno vivendo i personaggi rappresentasse, agli occhi dei cari del defunto, l’unica soluzione per metabolizzare con organicità un dolore così privo di linearità (e di senso) come quello generato dalla morte improvvisa di un padre. Di cui inizieranno a conoscere la vera natura solo in faccia alla sua assenza.

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Generalmente, le opere che nascono da premesse così deliberatamente astruse e prive di una sequenzialità logica, tendono a perdere di spinta e trazione, se non riescono ad estendere l’idea di base ad un corpus concreto (e credibile) di riflessioni connesse all’intimità dei personaggi o se declinano tale presupposto nel solo campo dell’allegoria. Ma dove Tentigo eccelle è proprio nell’ostinazione con cui dona un senso di materialità all’evento, legando sin da subito il paradosso su cui nasce l’intreccio al senso di perdita dei protagonisti, e alla loro necessità di scandagliare l’enigma paterno.

Da questa prospettiva, l’immagine di partenza si fa genesi e cassa di risonanza delle crisi dei due figli, nonché del tema che attraversa, trasversalmente, l’intero film: ovvero l’incapacità di conoscere in tutto e per tutto una persona, al di là del grado di parentela o della connessione che si crede di stabilire con un individuo biologicamente (e idealmente) affine. Un fattore, questo, da cui Tentigo non si separa neanche nei suoi segmenti più ridondanti e macchinosi. A dimostrazione della volontà di Lam di individuare nelle maglie nel grottesco lo sfondo delle risibilità dell’uomo comune. Secondo una strategia che gli consente così di creare, grazie ai suoi “assurdi” protagonisti, uno specchio delle idiosincrasie su cui, ogni spettatore, può tranquillamente vedere riflesse le contraddizioni dell’essere umano.

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