The Brutalist, di Brady Corbet

Storia ambiziosa, wagneriana e oscura di un architetto che scampa all’Olocausto per affermarsi in USA. Il film migliore di Corbet. Sempre al limite ma innegabilmente straordinario. VENEZIA81. Concorso

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Se c’erano ancora dubbi sulla smodata dose di talento, arroganza, ambizione dell’americano Brady Corbet, The Brutalist serve proprio a stagliarsi davanti ai nostri occhi senza mezze misure, in 70mm Vistavision, imponente e levigato come un tempio. Al suo terzo film da regista, l’autore di Vox Lux triplica le dimensioni e la magniloquenza, firmando un’opera – nel vero senso della parola – strutturata in tre lunghi atti più un’ouverture e un epilogo, per la durata complessiva di 3 ore e 30’. (E c’è anche un intervallo di 15 minuti, che ci rimanda alle visioni in sala di un altro tempo storico, ma da considerare a tutti gli effetti parte integrante del film).

Già dalle intenzioni The Brutalist vola altissimo: l’architettura, l’Olocausto, l’esilio, il dietro le quinte della Storia e dell’Arte attraverso la vita privata. Corbet, e la compagna Mona Fastvold che con lui scrive e produce, “costruisce” il “finto” biopic di Laszlo Toth, un architetto ebreo ungherese fuggito negli Stati Uniti dai campi di sterminio. Adrien Brody è lo scheletro polanskiano che riprende vita dove Il pianista si concludeva, al termine della Seconda guerra mondiale. A Corbet interessa l’ “esperienza” americana e quindi il suo film inizia alla fine degli anni ’40, con l’arrivo a New York e il soggiorno turbolento e in povertà a Philadelphia. Fino all’incontro con l’irascibile miliardario Van Buren, che si innamora della sua opera e ingaggia con Toth un rapporto ambiguo, di stima intellettuale e sopraffazione, controllo economico e abbandono. Nel mezzo l’altrettanto turbolento rapporto sentimentale con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e la nipote Szofia, inizialmente puramente epistolare, e poi con il loro arrivo in America nella seconda parte del film, liberatorio e straziante. E qui c’è spazio per una sorta di melodramma oltre la Storia, che diventa la cartina di tornasole romantica, privata e dolorosa delle tante utopie e degli orrori che il film si porta dietro.

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Il segno della Bauhaus, citata nello stile e nella formazione di Toth e nei font dei credits. La fonte meravigliosa di King Vidor. Eric von Stroheim. Buckenwald e Dachau. Ma anche la dipendenza dall’oppio, che Toth si inietta in vena, trasformandosi in un potenziale personaggio nomade di Burroughs e quindi nell’immagine/fantasma di un’altra America letteraria, lisergica e oscura. E dobbiamo ammettere che raramente avevamo visto un film così intimamente anti-americano. Lo straordinario piano sequenza iniziale, dove Toth si fa strada tra una folla di immigrati, nell’oscurità e nel caos linguistico come se fosse ancora all’interno di un campo di concentramento, si risolve con l’apparizione della Statua della Libertà rovesciata, come fosse l’epifania allucinatoria di un incubo che non è ancora finito. E infatti The Brutalist tra le altre cose si incunea in una vera e propria analisi perversa sulla dipendenza finanziaria e sui rapporti di potere tra il magnate e l’artista, grazie anche a un Guy Pierce spaventoso, perfetta incarnazione del Mito Americano scisso tra il salvatore e il demone.

Eppure, nonostante la durata del film e i tanti conflitti creativi che vengono raccontati, come nell’Andrej Rublev di Tarkovskij forse il “vero” riferimento di Corbet, l’opera compiuta dell’artista ci viene esposta solo nel finale, ambientato nel 1980. Gli edifici, che attraversiamo sempre di sfuggita nel corso di The Brutalist come progetti incompiuti, rimandati o semplici fotografie su una rivista in bianco e nero, si rivelano e si “spiegano” solo al termine del percorso di Toth, di Corbet e degli spettatori. “Non conta il viaggio ma la meta” viene detto non a caso  dalla nipote di Toth davanti a una platea nell’ultima scena, in quella che pare la dichiarazione programmatica di un cineasta ossessionato dall’idea del capolavoro, dell’opera d’arte fin(i)ta.

E quindi? Brady Corbet è un cineasta da prendere o lasciare. E forse finora con la sua filmografia siamo stati fin troppo severi. Anche qui emergono spigolosità, didascalismi ed eccessi (non privi anche di una certa ambiguità “politica”) di un cinema apertamente wagneriano, capace di saturare in modo perentorio lo schermo e il filo narrativo, sovrapponendo simbolismi e metafore, illuminazioni abbacinanti e ridondanze. Al netto di tutto, il materiale da plasmare e concettualizzare è enorme e The Brutalist si afferma come il suo film migliore. Ancora una volta problematico, certo. Ma innegabilmente straordinario.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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