The Giver – Il mondo di Jonas, di Phillip Noyce
Per dirla con l’anziana Maryl Streep The Giver pecca di troppa “precisione di linguaggio” per poter veramente emozionare noi spettatori. Ma al netto delle tante/troppe zavorre che pesano sul film, Noyce riesce comunque a rianimare il meccanismo “perfetto” della narrazione hollywoodiana classica ormai quasi perduta (ricordate il recente Edge of Tomorrow?) associandola a riflessioni estetiche non certo banali
Bene, si parte. Il film viaggia veramente come un treno nella notte, del resto Noyce è un collaudatissimo artigiano di lusso che conosce alla perfezione i ritmi e i tempi di un buon prodotto di genere “come si faceva una volta”. Jonas viene ben presto instradato alla conoscenza e quindi, fatalmente, all’emozione a essa connessa: alla rabbia e alla gioia, al dolore e al desiderio. Il suo mondo (e il nostro film) ritrova improvvisamente colore, movimento, fuoriuscendo dal b/n asettico che lo dominava, ma ogni termine che evochi una qualsiasi emozione viene brutalmente respinto dalla società con un secco “precisione di linguaggio, ti prego…questi termini non significano nulla di preciso”. Se ci fermassimo qui la riflessione del film sarebbe quantomeno datata di trent’anni. Ecco perché Noyce tenta ben presto altre strade, come quella della riflessione palese sull’immagine. Le memorie che il Donatore rievoca nel giovane Jonas durante l’addestramento sono immagini in movimento montate per evocare emozioni intime, quanto di più vicino al Cinema. Queste immagini colorate e vive, disegnano un “vecchio mondo" dominato dalle passioni, dalle guerre, dal sesso, dalle armi, dalla fame, dalla gioia, dalla morte e dall'amore. Tutto insieme. Jonas ne è prima spaventato, poi affascinato, infine impossibilitato a farne a meno. Il cinema si pone pertanto come antidoto all’anestesia dell’esperienza (riflessione quanto mai attuale…), e questa riflessione è talmente tanto smaccata che l’orrore della guerra viene configurato con un inserto in pieno stile Viet-movie hollywoodiano.
Pertanto, è indubbio, il film pecca di una programmaticità a dir poco evidente. Per dirla con l’anziana Maryl Streep The Giver pecca di troppa “precisione di linguaggio” per poter veramente emozionare noi spettatori come gli sceneggiatori o il regista vorrebbero. Si sente tutta la mancanza della folle anarchia dei Wachowski che in Cloud Atlas tentavano una riflessione molto simile ma con un impianto registico opposto. Nonostante tutto questo, però, Noyce riesce comunque a ri-proporre il viaggio dell’eroe con ammirevole sincerità, confezionando un film che si permette addirittura di associare la disperata ricerca della memoria a una slitta sulla neve. Che sia un eco della Rosebud wellesiana? Che sia ancora quell’archetipo base del cinema americano? Ecco allora: al netto delle tante/troppe zavorre che pesano sul film, Noyce rianima il meccanismo “perfetto” di una narrazione hollywoodiana ormai quasi perduta (ricordate il recente Edge of Tomorrow? L’impossibilità di “andare avanti” di Tom Cruise?) associandola a riflessioni estetiche non certo banali. E forse non è un merito da poco, a pensarci bene, in questi tempi così orgogliosamente smemorati…