Traces, di Dubravka Turić

Passato in concorso al Tertio Millennio Film Fest di Roma, il film della regista Dubravka Turić racconta di una donna che ha smarrito la felicità e ne insegue le tracce. Simbolico ed elegante

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Cosa spinge l’essere umano ad andare avanti nei momenti di sconforto? Una forza, l’ossessione per qualcosa. Ci si mette alla ricerca di un segno che indichi la strada da prendere. È questo il caso di Traces, il lungometraggio d’esordio alla regia di Dubravka Turić, dopo una carriera di successo come montatrice (il suo cortometraggio Belladonna premiato a Venezia nella sezione Orizzonti). Presentato in anteprima mondiale a Varsavia, è passato in concorso alla 27° edizione del Tertio Millennio Film Fest.

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La sua professione di antropologa la porta a condurre un’esistenza isolata. I suoi amici di lunga data non contribuiscono molto alla sua vita, poiché rimangono stagnanti nella loro comunicazione. Ancor prima che la sua vita, è il volto di Ana (Marija Škaričić) ad essere segnato e a portare le tracce ben visibili, nonostante cerchi di celarle con il trucco, di una malattia autoimmune della pelle che lascia segni di decolorazione.

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Ultimo membro di una numerosa famiglia, è preda di una crisi d’identità. Trascorre la maggior parte del suo tempo lavorativo in stanze e archivi bui, e anche nel suo tempo libero non c’è luminosità. La sua stessa professione di antropologa per un istituto statale la conduce ad una vita riparata e quasi eremitica, se non fosse per amiche di vecchia data che, però, non aggiungono molto alla sua esistenza.

In questo modo, i cambiamenti dentro di lei si riflettono sulla realtà. Cosa spinge la protagonista ad andare avanti? Una ricerca sui Mirila (“misurazione”), usanza che proviene dalla regione del Velebit in Croazia, in cui si prende la misura del defunto usando due pietre, una per la testa e una per i piedi, e la lapide viene poi decorata con simboli personali. Questo studio la porterà sui luoghi d’infanzia per poter ricominciare, lì dove tutto è iniziato.

Ana trascorre la maggior parte del tempo da sola e il dialogo non è necessariamente l’ingrediente chiave del film. Turić, che si è occupata da sola del montaggio, decide di puntare sulle componenti audiovisive, come l’uso della luce nella fotografia curata da Damjan Radovanović, la colonna sonora suggestiva di Jonas Jurkunas e il sound design di Dubravka Premar.

L’usanza dei Mirila, i simboli e il senso dell’esistenza si intrecciano con eleganza: fanno intravedere l’anelito d’infinito della protagonista, il suo desiderio di andare “oltre” e cogliere il reale significato dell’esistenza. La regista inoltre sfrutta la potenza mistica di questa antica usanza per approfondire i temi della morte e della rielaborazione del lutto, soprattutto la solitudine e il dolore di una donna che ha smarrito la felicità e ne insegue, con attenzione e devozione, le tracce.

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