VENEZIA 60 – I Nuovi Territori dell'alienazione

L'isolamento dei Nuovi Territori: anarchia e solitudine, cecita' e mutismo, politica e tecnologia, passato e presente. Poca curiosita', molte pretese, un po' di ingenuita' e qualche immagine che vale la pena di vedere.

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I primi movimenti dei Nuovi Territori girano intorno all'alienazione. A parte l'evento speciale d'apertura affidato a Persona non grata di Oliver Stone (un pedinamento ironico e rigoroso di Arafat che ruota dai poster dei santi kamikaze alle decise dichiarazioni degli alti rappresentanti d'Israele), quasi tutti i corti e i mediometraggi presentati documentano stati di isolamento e di differenza.


Libberato di Davide Lombardi incolla la camera al volto dell'omonimo protagonista, ingenuo e ingombrante "diverso" che ha passato gran parte della sua vita racimolando centesimi alla pompa di benzina della strada su cui passava sempre Lobardi. Il centro e' sempre e solo il volto di Libberato, mentre risponde serafico alle domande del regista intervistatore. Cosa fa nella vita? "Tutto": mangia e fa le passeggiate sulle spiagge di Ostia, o al limite fino alla stazione. Ce l'ha una donna? Non gli servono le donne, se non per "dargli le sigarette". Com'è il verso del maiale? E come fa il gatto? E il dinosauro? Apologia naif condita con vellita' alla Cipri' e Maresco. Breve, non brutto, ma piuttosto inutile.

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La differenza che segue e' quella di un mondo congelato e bloccato in una serie di fermi immagine, sfumature pubblicitarie e illuminazione da quadro secentesco. Sono gli emblematici protagonisti di Relojes de Arena, di Josè Francisco Ortuno e Laura Alvea, membri di una famiglia silenziosamente perversa dove gli uomini non vedono e le donne non parlano. Ci pensa il più piccolo, un bambino, a passare ago e filo sulle labbra delle donne, rendendole nere e segnate come i polsi di chi ha tentato il suicidio. Anche questo e' un piccolo mondo di isolamento, dove non si vede, non si sente e si rimane impigliati in un quadro, o una fotografia, fissando l'obiettivo.


Segue Mattatoio di Gabriele di Benedetto, che si firma Akab. Pretenzioso fin dalla frase di apertura ("la scienza non ha ancora dimostrato se la follia è il sublimamento dell'intelligenza"), questo documentario di circa un'ora e mezza segue la vita solitaria di Boris, deformato nel viso e nel corpo da ustioni che lo isolano, almeno come aspetto, da tutto e tutti. Così la sua giornata e' segnata soltanto da passeggiate nei campi, in macchina e escursioni nella notte. Gioca da solo, non vuole avere niente dall'ospedale e dai servizi sociali, e vive soltanto in funzione di Natasha, immagine lontana, iconografica e irraggiungibile di una possibile felicita' e una desirata comunione. Solo Natasha comunica con Boris, gli parla di Taxi driver e da' una specie di senso alla sua vita. Intanto le immagini si susseguono in alternanza a titoli e stacchi, mentre musica jungle e drum & bass fa da sottofondo a quest' opera verbosa e piena di ambizioni non troppo originali.



 

Il territorio della diversita' e' osservato anche da Wilma Labate, che in Maledettamia studia cinque giovani anarchici, facendo raccontare a ognuno la propria storia, filmandoli in modo semplice e pulito. Non solo per necessità stilistiche, ma anche per le circostanze: non troppo disponibili, non sempre compiacenti, i ragazzi hanno preferito che i tecnici e gli operatori fossero amici loro, e la Labate ha acconsentito. Il documentario si tiene alla larga da banalita' autoriali, ma lascia che gli errori e le approssimazioni dei suoi protagonisti (un hacker, una scrittrice, una danzatrice, un poeta rapper e una "narratrice calabrese") emergano da soli insieme alle loro velleita'. Chi si lascia andare a un po' di ironia, chi si prende in giro, chi crede nella propria difefrenza con ingenuità, chi spaventa per un calmo fanatismo. Le parole dei protagonisti, sguardo in macchina, scorrono alternate alle loro manifestazioni più o meno artistiche e alle immagini più rappresentative dei loro territori: centri sociali, il G8 a Genova, una spiaggia che diventa palestra, una scala che diventa teatro, un carcere che diventa platea.


Tra tutti i lavori visti fino ad ora, il più interessante e' senza alcun dubbio Contra Site di Fausta Quattrini e Daniele Incalcaterra. Partendo da un sito dedicato al Che e al suo misterioso luogo di sepoltura, il documentario, più che in Bolivia, e' ambientato all'interno di uno schermo. Tutto, o quasi, cio' che avviene avviene dentro al pc. Le immagini sono filtrate attraverso una grafica raffinata, rotonda e pubblicitaria- in intelligente contrasto con il tema passeista. Il motivo principale è la relazione tra l'idealismo di certi anni '60 e il contemporaneo. Una nuova epoca di creazione e' possibile? Chi "torna" agli anni '60 attraverso la creazione di un sito ultramoderno, chi discute di ideologia e socialismo in chat o utilizzando la telecamera del propri computer ha qualcosa da dire che vada al di la' della propria padronanza tecnologica? Il documentario cosi', molto piu' che alla ricerca de Che, va alla ricerca della passione, chiedendosi e domandandoci se sia possibile provare e mettere in atto qualcosa per cui e attraverso cui appassionarsi. Intanto, anche qui si esplorano l'isolamento e la differenza: la differenza di Che Guevara personaggio, l'isolamento di chi dialoga appassionatamente via pc ma ignora chi gli sta di fianco o di spalle.



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