Venezia 63 – "L'ètoile du soldat", di Christoffe de Pontilly (Giornate degli autori)

Nonostante le onorevoli intenzioni la pellicola del cineasta francese non riesce a emozionare. Il problema sta soprattutto nella scarsa fiducia che de Pontilly mostra nei confronti delle immagini. Per quanto paradossale, visto l'esperienza da documentarista del proprio autore, è la scrittura drammaturgica a inchiodare l'apparato visivo, e non viceversa

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Documentarista e scrittore impegnato in prima linea nelle zone 'calde' del mondo (Afghanistan, Angola, Indonesia), Christoffe de Ponfilly ha continuamente dichiarato il suo amore per l'universo afgano, indagando, attraverso gran parte della sua opera, sulla situazione politica e sociale di quel paese. Prematuramente scomparso il 16 maggio di quest'anno, ha realizzato con L'ètoile du soldat il suo unico lungometraggio di fiction. Il film ha per protagonista Nikolai, giovane russo amante della musica rock, che agli inizi degli anni '80, viene arruolato nell'esercito e mandato in Afghanistan a combattere una guerra di cui non sa nulla e che si rifiuta di accettare. L'ingenuità del suo sguardo, la sua purezza d'animo, il sogno di diventare musicista: tutto svanisce rapidamente, spazzato via dalle morti e da un dolore tragico che coinvolge civili innocenti e commilitoni. Rapito dai mujaheddin, Nikolai sorprendentemente (ma forse neanche troppo) finirà per adottarne usi e costumi, entrerà in contatto con una umanità disperata ma generosa, grazie alla quale riuscirà ad assaporare nuovamente la gioia di vivere.


Nonostante le onorevoli intenzioni, la pellicola del cineasta francese non riesce a emozionare. Il problema sta soprattutto nella scarsa fiducia che de Pontilly mostra nei confronti delle immagini. Queste, infatti, per tutta la durata del film danno quasi sempre l'impressione di non poter fare a meno del supporto verbale o dell'impianto narrativo. Per quanto paradossale, visto l'esperienza da documentarista del proprio autore, in L'ètoile du soldat è la scrittura drammaturgica a inchiodare l'apparato visivo, e non viceversa. De Ponfilly, forse troppo preoccupato di raccontare una parabola antimilitarista dallo sviluppo esemplare, non riesce mai a penetrare la realtà con il mezzo tecnico, né ad abbandonare l'opera a slanci lirici o a parentesi drammatiche davvero incisive. Ne risulta così un'esposizione piana del racconto, qua e là appesantita da un impianto pericolosamente didascalico. "Perché filmare la guerra? Le immagini resteranno immagini, la guerra uno spettacolo" dice a un certo punto la voce fuori campo in L'ètoile du soldat, mentre sullo schermo scorrono scene di guerra girate in bianconero a simulare materiale di repertorio. Considerazione a suo modo illuminante per carità, se non fosse che nel suo film de Ponfilly la guerra la filma eccome, non ponendosi affatto interrogativi etici sul voyeurismo mediatico o la rappresentazione del dolore, ma confermandoci semmai che il vero fulcro attorno al quale ruotano tali problematiche non è tanto il 'cosa' mostrare, ma il 'come'. De Ponfilly il suo 'come' lo ha scelto: L'ètoile du soldat può meritarsi il nostro rispetto, ma di certo non la passione.


 

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