VENEZIA 65 – "Mi aggrappo testardamente alla qualità". Incontro con Ross McElwee

Il regista di In Paraguay presenta il suo film nella sezione Orizzonti e offre uno sguardo sul Sudamerica il cui carattere preziosamente illuminato, sincero e sempre volto alla costruzione di consapevolezza va a segno e delicatamente commuove

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Il regista di 20,000 missing persons (1974), Space coast (1979), Something to do with the wall (1991), Bright leaves (2003) presenta nella sezione Orizzonti il suo ultimo lavoro, In Paraguay. Ross McElwee parte con la moglie e il figlio verso il paese sudamericano e filma un lungo soggiorno necessario a svolgere le pratiche per l’adozione di una bimba paraguayana di tre mesi. Tra contatti con gli abitanti, contrattempi e felici sorprese, squarci sugli echi del colonialismo e sulla storia recente e dettagli di pratiche culturali, il regista offre uno sguardo sul Sudamerica il cui carattere preziosamente illuminato, sincero e costantemente volto alla costruzione di una consapevolezza in progress va a segno e delicatamente commuove.

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Ci può raccontare il passaggio dal personale al globale di questo nuovo film?

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Per la prima volta ho cercato di mescolare la storia e la politica in un documentario. Il mio obiettivo era guardare al contesto della difficile adozione di una bimba in Paraguay. Un film sull’esperienza dell’adozione non sarebbe stato, secondo me, interessante, così come non lo sarebbe stato un film sulla situazione storico-politica del Paese. Per questo ho realizzato una deliberata miscela dei due argomenti.
 
Perché la dimensione autobiografica è così importante?
Per me è fondamentale basarmi su come vedo il mondo, su come agisco, sul mio piacere e la mia delusione. Questo è il modo in cui, da venticinque anni, faccio cinema.
 
In Paraguay è anche un film su un lunghissimo aspettare. Come si filma l’attesa?
Questa era la sfida del film: quando arrivammo in Paraguay, realizzammo che ci saremmo stati molto più tempo di quanto immaginavamo. Quindi il film ruota intorno all’attendere qualcosa, lungo tutto il processo legale e burocratico dell'adozione. Il problema del regista qui è che si tratta di un film in cui non accade nulla: mi ha costretto a guardare alla storia del Paese, perché nel presente non ci sono eventi. E mi ha anche costretto a proiettarmi nel futuro, a pensare all’esito dell’adozione.
 
Nelle sue opere precedenti guardava molto al suo passato. Con questo film, e questa bambina, sembra rivolgersi ad un futuro sconosciuto…
Cercare di immaginare ciò che il futuro sarebbe stato era impossibile, eravamo immersi nel presente. I miei film sono sempre basati sulla verità e quindi sul presente, filmare il futuro è contrario a ciò che ritengo debba essere lo sforzo di un regista. Per questo preferisco il passato.
 
Una parte del film è stata girata in 16 millimetri e non in digitale, perché?
Ho usato il digitale in Paraguay per avere uno strumento che non attirasse troppo l’attenzione, mentre ho usato il 16 millimetri per la prefazione e il ritorno negli Stati Uniti. Mi aggrappo testardamente alla qualità, che è palpabile nel 16 millimetri: nel video è tutto completamente diverso. Ma negli Stati Uniti è sempre più difficile trovare laboratori che lavorino la pellicola, è molto più costoso. In ogni caso, il modo in cui ho iniziato e continuerò a lavorare è questo.
 
Per il suo umorismo lei è stato paragonato a Mark Twain…
L’umorismo è essenziale per i temi che ho trattato nei miei film: l’olocausto nucleare, l’influenza negativa dei media sulla società americana, sulla psiche e la coscienza, i danni del tabacco…Nel guardare la vita, è necessario mantenere l’umorismo. Che aiuta anche l’attenzione del pubblico, oltre ad essere una mia componente naturale.
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