VENEZIA 66 – "Once upon a Time Proletarian – 12 Tales of a Country", di Xiaolu Guo (Orizzonti)

La regista, Pardo d’oro a Locarno, non inventa nuove prospettive e non è in grado di trasfigurare la realtà che inquadra. Eppure, riesce perfettamente a mettere a nudo i passaggi di una trasformazione economica che si inserisce come una forzatura devastante in un tessuto sociale fondamentalmente pre, prima ancora che anti, capitalistico

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LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO DI SENTIERI SELVAGGI

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Once upon a Time Proletarian
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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Nota da tempo come scrittrice, Xiaolu Guo si è definitivamente affermata tra i registi cinesi di ultima generazione, grazie alla vittoria del Pardo d’oro all’ultimo Festival di Locarno con She, a Chinese. E in quest’ultimo documentario, Once upon a Time Proletarian, si ritrovano i temi, gli ambienti, i segni di una certa tendenza del più recente cinema cinese, sempre teso l’esplorazione realistica e poetica delle contraddizioni di un Paese in rapida trasformazione. Come recita il sottotitolo del film, la Guo dà voce a dodici personaggi di diversa estrazione sociale per raccontare gli effetti sociali di uno sviluppo economico rapidissimo e inquietante. Una galleria di volti ed esperienze. Il vecchio contadino ridotto in povertà estrema da scelte politiche sempre più sfavorevoli all’agricoltura, la proprietaria di un ‘ristorante’ che vive di rimpianti, il pescivendolo impegnato da mattina a sera in un lavoro monotono e ripetitivo, le cameriere di un albergo a quattro stelle, un giovane meccanico venuto dalla provincia, un’imprenditrice alberghiera che loda le svolte capitalistiche del governo. A far da cornice un gruppo di ragazzini che leggono brevi storie, perle di saggezza antica, piccoli exempla ironici e caustici. Certo: Xiaolu Guo non è Jia Zhang-ke, non inventa nuova prospettive e non è in grado di trasfigurare la realtà che inquadra, nonostante provi a toccare sottili corde emotive concentrandosi sui volti, sui silenzi, su certe sospensioni trasognate. Eppure, riesce perfettamente a cogliere e a mettere a nudo i passaggi di una trasformazione economica che, se da un lato appare come sviluppo inevitabile di un processo storico avviato con il socialismo di mercato di Den Xiao Ping, dall’altro si inserisce come una forzatura devastante in un tessuto sociale fondamentalmente pre, prima ancora che anti, capitalistico. E la forza del film è proprio nel suo essere specchio di un popolo che sembra vivere una doppia alienazione: le vecchie generazioni, derubate delle idee egualitarie e dei sogni della rivoluzione maoista e le nuove, ormai immerse in ritmi e spirali d'inquietudine essenzialmente occidentali. Il filo rosso dell’infelicità non conosce fine.      
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