VENEZIA 67 – “Raavanan”, di Mani Ratnam (Fuori concorso)

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Un melodramma pervaso da una sorprendente ed oscura carica erotica “illecita”, e dagli evidenti sottotesti politici. Dietro il rapimento della moglie dell’inflessibile poliziotto Dev da parte di un feroce e potente leader tribale, c’è tutta la tensione tra il “locale” e il “nazionale” che sappiamo scuotere variamente quella penisola da tempo. Ratnam, come sempre, sa rivoltare come un guanto la Bollywood più rumorosa e sgargiante e piegarla alle proprie ambizioni

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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raavananPremiato (finalmente) con il Glory to the Filmmaker Award, Mani Ratnam conferma la sua caratura di autore internazionalmente riconosciuto per la sua capacità di manovrare dall’interno gli ingranaggi vitali del cinema indiano. Per l’occasione, porta a Venezia il suo nuovo film in due versioni lievemente differenti, Hindi (Raavan) e Tamil (Raavanan). Un triangolo dai risvolti vistosamente politici: Veera, feroce leader carismatico di una banda che a Vikramasingapuram spadroneggia violenta e incontrastata (anzi, con il pieno appoggio della comunità tribale e dei suoi strati più umili, per i quali Veera ha, in un modo o nell’altro, fatto molto), rapisce Ragini, bellissima moglie del giovane e inflessibile poliziotto Dev. Quest’ultimo parte a spron battuto, deciso a non fare prigionieri e a non guardare in faccia a nessuno pur di riconquistare il maltolto. Nel frattempo, però, Ragini ha modo di immergersi in una durissima realtà antropologica che non conosceva affatto, e che mette a dura prova i suoi valori di borghese benestante. Lentamente passerà dall’altra parte: capirà insomma che Veera non è il demonio che sembra, e che l’inattaccabile marito in realtà è più interessato al dovere fine a se stesso che a salvarla.

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Il nucleo politico è abbastanza trasparente: gli scossoni localistici che hanno fatto e fanno variamente traballare la penisola indiana sono un segnale “dal basso”, genuino, che è impossibile trascurare, ma che è ugualmente impossibile assecondare fino in fondo buttando via sistemi sociali più “moderni” e magari più impopolari. Al fine di fare “ingoiare” catarticamente questa rovente contraddizione senza uscita, Ratnam getta lo spettatore nella spettacolarità più sfrenata, nel tripudio di balletti, alchimia di generi, suspense e quant’altro sappiamo essere Bollywood, solo per poi costringere sottilmente lo spettatore a tornare faticosamente sui propri passi. Soprattutto grazie a un sapiente gioco di flashback che ci fa sbattere ripetutamente davanti al fatto che Veera non è proprio quello che credevamo.
Forse però ciò che maggiormente contribuisce a questa specie di “contropelo” che il film persegue con tanta forza, è l’inaudita carica erotica del rapporto tra Ragini e Veera, che da vittima-carnefice passerà all’amore vero e proprio solo alla fine, quando sarà troppo tardi. In mezzo, lungo tutto il film, un vortice di frenetica, oscura, repressa attrazione reciproca che a malapena riesce a non esplodere, di segno completamente diverso rispetto alla “solare” passione delle danze e delle celebrazioni matrimoniali: qui c’è solo un’occorrenza, e nemmeno troppo estesa, di quegli idilli coniugali ballati (tra Dev e Ragini) che sono tra le più riconoscibili marche di questo tipo di cinema. Ce n’è anche un’altra (riguardante un personaggio secondario) a dire il vero, ma viene appunto troncata traumaticamente dall’improvviso intervento armato di Dev. La libertà stilistica con cui la mobilissima macchina da presa di Ratnam indulge in questa “doccia scozzese” fa del film (pure non il più audace del regista – si veda il magnifico Dil se) una tappa importante di un percorso che in Occidente merita ancora di vedersi riconosciuto il rilievo che merita.
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